L’ecologia e il sentimento di esistere

Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B 2021 (pp. 204, euro 16)

“La complicata questione di come le società industriali possano aumentare la produzione di energia (…) è uno spreco di tempo se l’aumento dell’energia è inutile in relazione ai fini ultimi”. Che è come dire: discutiamo pure di come far fronte alla minaccia che le forniture di gas crollino, oppure della tassonomia europea delle fonti da ritenere compatibili con la lotta alla crisi climatica, ma la questione vera è che cosa se ne fa dell’energia stessa. L’”ecologia profonda” si riassume in prese di posizione come questa: se è tale davvero, il discorso ecologico non può non mettere in discussione l’assetto generale del sistema in cui, di cui viviamo, e, a monte, il pensiero che più o meno esplicitamente lo sostiene.

Altrimenti è “ecologia superficiale”, superficiale al di là del fatto che i suoi sostenitori siano in buonafede o siano invece interessati promotori di semplice greenwashing (la parola è troppo recente per rientrare nel lessico di Næss). Perché è un’ecologia che si muove, a livello pratico, tutta all’interno delle tecnologie a disposizione, per nulla estranee al disastro in corso, e a livello teorico resta prigioniera dell’idea che i viventi non umani siano risorsa: non esseri dotati del valore in sé che la vita rappresenta, ma fonti di utilità e benessere, e profitto per uno solo di questi stessi esseri, l’uomo. Ma il discorso di Næss non è un discorso di principio, non è solo demolizione dell’antropocentrismo. È un corpo a corpo con le tesi dominanti a proposito di problemi specifici (inquinamento, risorse ecc.), che vengono passati in rassegna mettendo a confronto per ciascuno gli “approcci superficiali” – in cui molta ecologia è invischiata – e quelli “profondi”, con l’esito di indicare soluzioni che vanno alla radice dei problemi e di sovvertire modi pensare consolidati. Un esempio: la sovrappopolazione del pianeta è considerato un problema dei Paesi in via di sviluppo (nostro solo nella misura in cui assume il volto del migrante), che dunque va contenuta, mentre, se ci si trova nella parte ricca del mondo, “si assolve o addirittura si esalta l’aumento della popolazione del proprio Paese”, o si depreca il suo decremento, per ragioni economiche, militari o altro. Questo l’approccio superficiale, mentre chi va al fondo delle cose non può non dichiararsi convinto che “Dovrà aver luogo una riduzione a lungo temine della popolazione umana, attraverso misure politiche ed economiche miti ma tenaci”. Si badi a quel miti: non si tratta della spia di una volontà di attenuare un atteggiamento autoritario, in prospettiva, magari sfumandolo paternalisticamente. Næss è tanto convinto dei fini ultimi quanto della possibilità che riferimenti culturali e ideologici diversi vi possano portare e vadano dunque rispettati.

Se il discorso del filosofo norvegese – scomparso poco più di dieci anni fa, formatosi soprattutto su Spinoza e Gandhi, professore ma anche alpinista di fama – richiama le concezioni del mondo di antiche culture e tradizioni spirituali soprattutto extraeuropee nel sostenere il valore intrinseco delle realtà naturali, non solo degli animali e delle piante, ma anche dei monti e dei fiumi, della Terra nel suo complesso, occorre considerare la ricaduta politica dell’ecologia profonda, resa possibile dalla traduzione in termini scientifico-filosofici occidentali di suggestioni altrimenti destinate a rimanere avvicinabili solo a una minoranza. Pensatori come Næss,indipendentemente dalla loro popolarità, hanno creato i presupposti di una sensibilità ecologica diffusa ed hanno aperto la strada alla militanza ambientalista dei giovani. Perché hanno cercato di tradurre in indicazioni concrete le loro convinzioni. Prova ne siano gli “otto principi dell’ecologia profonda” in cui Næss ha condensato il suo pensiero, nell’ottica – aspetto, questo, per nulla secondario – di andare oltre l’“etica triste” dei divieti e dei rimorsi nei confronti dell’ambiente per aprirsi a una visione costruttiva, non ottimistica ma serenamente fattiva, supportata da poche essenziali raccomandazioni, come quella – che non può non far pensare all’orizzonte di una decrescita felice delineato da Latouche – di “sviluppare un gusto e un apprezzamento per ciò che abbiamo a sufficienza”, più che per ciò che non smettiamo di aggiungere alle cose che siamo indotti a credere indispensabili, o comunque desiderabili.

Di questo libro, oltre alla concretezza radicale delle analisi e degli enunciati, restano nella mente i capitoli iniziali, il primo soprattutto, che sanno coniugare esperienza personale e intuizioni di portata generale. La decisione di costruirsi una piccola baita ai piedi di una maestosa quanto poco frequentata catena montuosa e di viverci il più possibile è stata la risposta alla percezione, e al vissuto, di un fatto che ci si ostina a passare sotto silenzio: “l’umanità soffre di un processo di corrosione dei luoghi”, sente la perdita di luoghi cui appartenere, di cui sentirsi parte per avere una percezione piena di sé, la sensazione di “(essere) lì, autenticamente”, il sentimento di esistere.

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