Una natura domestica, non addomesticata

Philippe Descola, Un’ecologia delle relazioni. L’uomo e il suo ambiente, Marietti 1820, 2021 (pp. 60, euro 9)

Ha il tono della rievocazione, ma risponde anche al proposito di un consuntivo, questa breve, esemplare lezione di uno dei più grandi antropologi del nostro tempo. Antropologo ma, innanzitutto, etnografo, lo “specialista che si immerge nella vita di una comunità, vicina o lontana che sia dal suo luogo d’origine”, “per capire dall’interno le sue abitudini”, “i suoi modi di agire e di pensare”. La comunità studiata da Descola è stata, per anni, quella amazzonica degli Jivaros Achuar; il fulcro della cultura là indagata, messo a fuoco attraverso la riflessione dell’etnologo, si rivela sorprendentemente pertinente rispetto ai problemi, anzi al problema dei nostri tempi: la relazione fra l’uomo e la natura; il modo, e la misura, nei quali gli uomini si sentono parte dell’ambiente in cui vivono. È l’antropologo, infine, ad estrarre e formalizzare le concezioni che governano questa relazione.

Un passaggio necessario e conseguente, dunque, quello così delineato attraverso “tre forme di conoscenza”, “tre attività scientifiche”, che non si gioca tuttavia solo sul piano teorico, ma si incarna in una biografia: da “filosofo spretato”, insofferente “verso le modalità di insegnamento della filosofia”, il giovane Descola passa all’etnologia e incontra Maurice Godelier e la sua rilettura di Marx che gli permette di gettare nuova luce sull’economia delle società precapitalistiche, ma soprattutto Lévi-Strauss, studioso di quelle “società amazzoniche” i cui membri apparivano “privi di un sistema sociale riconoscibile”, bellicosi, isolati, non esenti da pratiche quali l’antropofagia. L’Altro, insomma, della civiltà, o di quella che si ritiene la sola a detenerne il primato: la civiltà dell’Occidente, quella stessa cui apparteneva Montaigne, capace di uno sguardo sugli Amerindiani non omologato a quello dominante, che vi vedeva soltanto dei “selvaggi” che di buono non avevano nulla. Ma attenzione: l’uno e gli altri appaiono, sotto la lente dell’antropologo, accomunati dal fatto di considerare quei popoli come “un’appendice dell’ambiente naturale”, del quale solo in anni vicini a noi risulteranno invece interpreti sapienti, sotto il profilo botanico, farmacologico, ecologico.

È in questo arco di posizioni che si inserisce l’ipotesi del ricercatore francese: l’invenzione, da parte degli Amerindiani, di “una formula sociale inedita che consisteva nell’allargamento dei confini della società ben oltre la specie umana, al fine di includervi le piante e gli animali”. Un’ipotesi che scalza il determinismo ambientale e nello stesso tempo prende le distanze dall’interpretazione culturale di Lévi-Strauss, aprendo la nuova via che percorre l’indagine condotta con la compagna, tra Ecuador e Perù, fra gli Amerindiani, “che ci osservavano – i loro bambini soprattutto, riferisce con empatica consapevolezza Descola – quanto li osservavamo noi”. L’ipotesi di partenza è confermata: “gli Achuar immaginavano le piante e gli animali come dei partner sociali, degli interlocutori, delle persone”, “ontologicamente simili agli umani” per quanto da questi cacciati e mangiati.

Di qui, e attraverso verifiche e studi comparativi a largo raggio, un’intuizione di portata generale: la “distinzione netta fra natura e cultura”, fra ambiente e società, non è un dato universale. Una specificità della cultura occidentale piuttosto: altre culture vivono in una natura “domestica”, non “addomesticata”; una natura vissuta secondo modalità delle quali l’animismo è solo una delle declinazioni possibili, accomunate comunque dalla loro estraneità al naturalismo in cui si risolve – si riduce…. – il nostro modo di pensare. Ma qui siamo ormai passati al piano dell’antropologia, ed è a questo livello che Descola proseguirà la sua ricerca, tuttora in corso: il libro si chiude con il riferimento alla collaborazione a una mostra al Museo di Quai Branly e al libro che ne è derivato, in fase di messa a punto, dice l’autore (ma che noi sappiamo uscito quest’anno con il titolo Les formes du visible. Une antropologie de la figuration), un libro che rientra nel programma di ricerca, sulle diverse forme che “i collettivi intrattengono con la Terra”, al quale lo studioso, finalmente e “felicemente in pensione”, conta di dedicarsi.

A noi non resta che attenderne sintesi brillanti quanto questa lezione, essenziale e al tempo stesso preziosa per accostarsi a Oltre natura e cultura, l’opera vasta e complessa uscita nel 2005 ma solo quest’anno apparsa in Italia.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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