Vivere nel posto che ci fa felici

Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi 2021 (p. 146, euro 18)

A quarant’anni Fausto lascia la città e torna alle montagne sotto il Monte Rosa, che conosce fin da ragazzino (starne lontano è probabilmente la causa dei “problemi con la donna che era diventata sua moglie”). E là incontra la titolare del ristorante del posto – “arrivata anche lei dalla città”, trentacinque anni prima –, che non tradisce il nome evocativo e promettente che si è scelta, Babette, e sa infatti “cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali”. Ne è assunto come aiutante in cucina, facendosi così, anche lui, una comparsa nel “travestimento collettivo” cui si prestano pastori e boscaioli diventando per tre mesi all’anno, durante la stagione sciistica, “macchinisti di seggiovia, addetti all’innevamento, gattisti e soccorritori”. Che cosa manca a questa favola alpina? Lei, la bella, ed eccola dunque: la ragazza che serve ai tavoli, “giovane, allegra, aria da giramondo”: “un segno dei tempi pure lei come le fioritura fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi”.

Le due pagine iniziali bastano a delineare figure e paesaggio di un romanzo che – detto in estrema sintesi, dall’autore stesso – “racconta di persone che cercano di essere felici e pensano che la montagna sia il luogo di questa felicità”. Una felicità fatta d’amore, con la ventisettenne Silvia, e d’amicizia, come quella che nasce con Santorso – montanaro vero, ex forestale e cacciatore –, ma è nutrita anche da presenze discrete come quelle della lepre, della volpe, del cervo, e, quasi invisibile, del lupo. Ma non è tutto qui. Fausto scrive, o “per lo meno ci prova”, anche se le travagliate storie di coppie di cui era stato autore gli sembrano ormai “scritte da un altro” e ormai altro, in effetti, è quello che di tanto entra nel suo quaderno, nel corso di lunghe camminate: “Si sentiva come un musicista che avesse cambiato genere e forse anche strumento”, perché “era stanco di scrivere di uomini, donne, amori”. Il mito di Jack London è ormai cosa passata. È se mai la montagna, “impassibile”, con le sue storie minute, per nulla avventurose, adesso, che può fornire materiali alla scrittura: il tuono delle valanghe, la neve e il vento che fanno strage di larici, ma anche le vicende dei personaggi che vivono lì, da Santorso, che ha lasciato i forestali quando li hanno fatti diventare un corpo di polizia, a Babette, che guarda gli aerei che sorvolano le Alpi diretti a Parigi e le insinuano il dubbio che non sia il suo il posto dove aveva deciso di stare quando aveva lasciato gli amici di Milano ormai dimentichi degli anni che avevano vissuto, gli anni Settanta.

Ma i mesi dello sci finiscono, il ristorante chiude per ferie e Babette se ne va, lontano, non si sa dove, Silvia realizza il suo sogno di lavorare in un rifugio in quota, vicino al ghiacciaio: una storia è fatta (anche) dei cambiamenti che mandano all’aria la situazione che essa stessa aveva costruito. Fausto torna a Milano, affronta la “conclusione dignitosa” per quanto amara, del rapporto con la moglie, va a salutare la madre ottantenne, e poi torna su, alla montagna. Ma non è più come prima: cosa ci fa lui, se non “inseguire la ridicola utopia del vivi-nel-posto-che-ti-fa-felice”? E poi, Santorso ha avuto un incidente, che non ha fatto altro che rivelare le condizioni precarie della sua salute, anche se è altro quello che nascondeva. Babette è sua moglie, una moglie che lo tratta da tempo come un fratello, e c’è anche una figlia, che arriva dall’Inghilterra, dove ormai viveva. E i cambiamenti non sono finiti. Fausto viene assunto, grazie a Santorso, come cuoco in un cantiere forestale, lontano dal paese: “c’è sempre bisogno di qualcuno che fa da mangiare; di qualcuno che scriva, non sempre”.

Le vite di Silvia, lassù al Quintino Sella, e di Fausto, fra i boschi, con Santorso ormai fiaccato nel fisico ma come sempre attento alle cose della natura e alle vite di chi gli sta accanto: il romanzo si affida nelle pagine centrali alle sensazioni e ai gesti dei protagonisti, che fanno tutt’uno con il tempo e i paesaggi della montagna, la montagna della cui esistenza “la gente più in basso” sembra essersi dimenticata. La montagna dei ghiacciai che in passato avevano fatto paura e oggi fanno solo pietà.

Poi la storia, che sembrava esser tornata ad adagiarsi nel ritmo di vite, volenti o nolenti, contemplative, riparte. Ma intanto un altro personaggio ha cominciato a lasciare traccia della sua esistenza: “il ladro”, “il fuorilegge”. Il lupo, che diversamente dalle piante, che quel che desiderano lo devono cercare dove sono nate, e dagli erbivori, che inseguono la loro felicità tra il fondo valle e l’alpeggio per poi tornare da dove erano partiti, il lupo segue un istinto “meno comprensibile”, come aveva spiegato Santorso a Fausto: “Arrivava in una valle, magari trovava abbondanza di selvaggina, eppure qualcosa gli impediva di diventare stanziale, e a un certo punto lasciava lì tutto quel ben di dio e se ne andava a cercare la felicità da un’altra parte”.

Una favola alpina, si diceva. Senza un lieto fine, occorre aggiungere, a meno che si voglia considerare tale la serena constatazione che “la montagna esisteva, del tutto indifferente ai sogni” degli esseri umani.

Una favola, si diceva, ma non per sminuire lo spessore o disconoscere le risonanze di una storia che della favola sa conservare un’aura di meraviglia, di quella capacità di guardare come li si vedesse la prima volta al mondo e agli altri, alla montagna e a tutti i viventi che vi si incontrano, di quell’atteggiamento che abbiano conosciuto nelle pagine di Mario Rigoni Stern, il maestro spesso evocato da Paolo Cognetti. Non solo per la scrittura, le idee, lo stile di vita. Anche per la cucina: Patate alla Mario sono quelle che Fausto cucina per gli operai del cantiere forestale (la ricetta a p. 75).

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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