Le ragioni dei vecchi

Ancora su Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza di Francesco Stoppa (Feltrinelli 2021): uno scambio con l’autore dopo l’incontro a Brescia dello scorso 11 giugno, al Bistrò Popolare

Gentile professore,

Le età del desiderio – come credo risulti evidente dalla nota di lettura che gli ho dedicato – mi ha rimandato ad altri libri per me significativi nel lavoro di elaborazione della condizione del tutto prevedibile ma per molti versi inimmaginabile che è l’invecchiare. Fase conclusiva della “personalizzazione”, stando al Sartre rivisitato da Recalcati (ne abbiamo parlato qui), impegnativa e ineludibile, a meno che ci si voglia adeguare alla figura del’anziano così come viene proposta (o imposta), assumendola su di sé come nelle età precedenti si erano indossate le maschere corrispondenti a ruoli e collocazioni sociali; occasione di una “seconda vita” – come recita il titolo di Jullien (ne abbiamo parlato qui) –, se si sa far propria la possibilità di sottrarsi a quel bisogno che ha avuto un ruolo portante nella prima vita: il bisogno di riconoscimento, anche nell’amore, il bisogno di “imporsi al mondo e stabilirvi il proprio posto”. È soprattutto questa, la prospettiva di Jullien, ad essermi risultata convincente nel lavoro di elaborazione cui accennavo, e mi è parso di poterla ritrovare nel suo libro. Anche se da un punto di vista diverso: Jullien lascia intendere che di quel bisogno di riconoscimento ci si possa sbarazzare, che degli altri, nella sostanza, si  possa (finalmente) fare a meno; illusione che invece non mi pare trasparire dal suo discorso: l’“arte di tramontare” somiglia alla “riforma” della propria esistenza di Jullien, ma è un’arte –  un’“opera”, come ha efficacemente sottolineato nella conversazione a Brescia – che si esercita in relazione agli altri, sotto lo sguardo degli altri (anche, o soprattutto, aggiungerei, degli altri che sono in noi, che siamo noi).

Mi era necessaria questa premessa per arrivare alle due osservazioni che volevo proporle.

La prima: tramontare non è sinonimo di rinuncia – rassegnata o rancorosa che sia – alla vita, ma soltanto a patto che il tramonto abbia il tempo di dispiegare i suoi colori, sino a quelli più tenui del crepuscolo… Se al passaggio dalla luce all’oscurità questo tempo è negato, il senso che ne viene non può essere che quello di una perdita netta. Fuor di metafora: forse non è azzardato pensare che nell’atteggiamento dei vecchi che continuano,  tristemente, pateticamente spesso, a volersi imporre – nel loro ruolo, nel loro stile, nel loro aspetto – giochi anche la percezione che se appena si astengono da una presenza dichiarata ed esibita sono fuori, diventano invisibili, messi nell’impossibilità di dire e di dare ciò di cui si sentono ancora, a torto o a ragione, detentori.

La seconda: nel desiderio di trasmettere ai giovani quello che si è imparato, ciò che si sa, ciò che si è, si può certamente riconoscere un desiderio, il desiderio che attraversa la vecchiaia, anche se non tutte le vecchiaie. Un desiderio che deve però fare i conti con la mentalità diffusa, inconsapevole e pervasiva, che alcuni hanno sinteticamente definito presentismo. Non si tratta tanto di deprecare la svalutazione del passato e l’appannarsi del futuro, quanto di prendere atto che il significato attribuito alla tradizione, la funzione individuabile nell’eredità culturale, e più in generale: il valore assegnato all’esperienza, sono entrati, non da ora, in una crisi irreversibile, ossia: in una fase di ridefinizione di cui non conosciamo gli esiti. Ed è in questo quadro che si inscrive il dislivello culturale determinato dall’informatica e da tutto ciò che le è connesso, un dislivello che non riguarda solo un sapere procedurale (in questo caso si potrebbe prevedere che basteranno pochi anni perché sia colmato, con la scomparsa di coloro che oppongono un’insuperabile refrattarietà ad assimilare nozioni e regole per loro inedite quanto ostiche), ma è di natura culturale nel senso più pieno del termine: non si tratta certo della  fine della “cultura”, ma senz’altro di una sua trasformazione radicale, come tale destinata a durare a lungo e naturalmente a coinvolgere anche la trasmissione intergenerazionale. Senza andar troppo lontano, credo che nella laconicità o addirittura nell’“avarizia” di molti vecchi nel relazionarsi ai giovani ci sia anche la consapevolezza di una distanza crescente, la percezione di uno scarto incolmabile fra la propria capacità di narrare (capacità ormai ridotta e molto rara, ci ha spiegato Benjamin, che affonda le sue radici nel venir meno della possibilità di fare davvero esperienza) e la altrettanto carente disponibilità ad ascoltare di chi – complice il presentismo di cui si diceva – ritiene, di fatto, che stia a lui dare (nuovo) inizio ad ogni discorso, ad ogni pratica.

In conclusione, credo sia utile andare oltre la critica, certamente fondata e necessaria, di alcuni comportamenti delle persone in età, per cogliervi il segno di una dialettica in rapido divenire che governa il rapporto dei vecchi con gli altri, giovani o meno giovani che siano.

Ecco il punto, che ho colto nel suo libro: adolescenza e vecchiaia sono accomunate, anche, dal fatto di essere esposte, più delle altre età della vita, allo sguardo degli altri, nel senso che avvertono la difficoltà di fronteggiarlo alla pari; sentono la minaccia di essere inquadrate secondo coordinate rigide e riduttive, che prescindono dalla specificità individuale e dalla storia personale (anche l’adolescente ha già una storia sua); soffrono di una solitudine che nell’adolescenza  trova (o conta di trovare) sbocco in occasioni e riti collettivi, mentre nella vecchiaia è spesso costretta ad essere vissuta nella dimensione individuale (i vecchi non parlano volentieri fra loro di vecchiaia, elenchi delle malattie a parte…).

Grazie, e buon lavoro
Carlo

***

Gentile Carlo,

ho letto la sua recensione e le sue considerazioni.
Ne farò tesoro (anche delle questioni che mi pone) perché mi sono sembrati sottolineature e rilanci per nulla scontati, frutto di una lettura intelligente, attenta e sensibile.
Non posso che ringraziarla di cuore, sperando di poterci reincontrare presto!

Con gratitudine
Francesco

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