Le due solitudini

Aurelio Musi, Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network, Neri Pozza 2021 (pp.172, euro 17)

Non giova quel sottotitolo che fa pensare a uno dei soliti libri compilativi capaci, almeno nelle promesse, di offrirti sintesi fulminanti di temi strappati a trattati prolissi e difficili. Perché la storia che qui ci viene raccontata, colta e insieme piacevole alla lettura, opera delle scelte precise, individua criteri efficaci e trasparenti nel ricondurre le forme della solitudine a pochi essenziali modelli che offrono “una lente attraverso la quale rileggere la storia culturale dell’Occidente a partire dalle sue radici nell’antichità classica”. L’ambivalenza della solitudine, innanzitutto. Come di ogni sentimento umano, del resto, faceva notare il più grande storico dei sentimenti e delle mentalità, Lucien Febvre, secondo il quale “una specie di comunità fondamentale unisce sempre i poli opposti dei nostri stati affettivi”, per cui è possibile distinguere una solitudine buona da una cattiva, la solitudine “depressiva” da quella “evolutiva”, la loneliness dalla solitariness (com’è noto gli inglesi hanno in proposito due termini distinti), continuando tuttavia a riconoscere una continuità profonda fra i due modi di vivere una condizione che tutti – in misura e secondo modi diversi – conosciamo per esperienza.

Ambivalenza ma anche carattere culturale della solitudine: per spontaneo che appaia, ogni sentimento è quel che è in ragione della cornice di significati entro cui si colloca.

Fissate queste due coordinate, il discorso può attraversare epoche e autori diversi individuando punti di svolta: la nietzschiana “grandiosa solitudine” dell’eroe omerico, ancora rintracciabile in Eschilo, si fa solitudine dell’uomo, assumendo valenze esistenziali, in Euripide, e sociali in Cicerone, e più ancora in Seneca, la cui solitudine è frutto di un allontanamento disincantato dalla sfera pubblica, dal mondo della politica e della corruzione. Solitudine come delusione, quindi, ma anche come componente ineludibile della condizione umana: presente già nel pianto del neonato, taedium vitae nell’adulto, angoscioso sdoppiamento che ci segue tutta la vita fra il desiderio di sfuggire a sé stessi e quello di restare, pur malvolentieri, quel che si è.

Via via si fa evidente che se cronologicamente progressivo è l’impianto del discorso, le sue tematiche sfuggono a questa logica, sicché può avvenire che autori lontani secoli da noi si rivelino più che mai attuali.

Così la solitudine di Agostino, che fa tutt’uno con l’inquietudine, con l’incertezza insita nel vivere, nel vivere in società quantomeno, tanto da far cercare nella fuga dal mondo un rimedio efficace. È la via dei monaci, ma non una via univoca: eremo o cenobio? Salvare sé stessi allontanandosi dagli altri o aiutare gli altri a salvarsi e dunque continuare a stare con loro? Solitudine o comunione? E nel medioevo: solitudine “carismatica”, quella dei monaci appunto, e dei mistici, o solitudine “selvatica”, quella degli erranti, dei pellegrini, degli emarginati, dei folli?

Oscillazioni e dubbi che si incontrano nella aegritudo di Petrarca, con cui l’inquietudine agostiniana diventa la “malattia della solitudine intellettuale dell’uomo moderno”: la solitudine vissuta in dialogo con Dio trasmigra nella solitudine dell’umanista in dialogo con i suoi libri, che non lo pacificano, per altro, lasciandolo in bilico sempre fra contemplazione e azione, fra ritiro agreste e scambio cittadino. Un’alternativa che, come spesso accade, Montaigne illumina della sua saggezza arguta: “c’è modo di fallire nella solitudine come nella società”, avverte nel saggio proprio alla solitudine dedicato. Una solitudine ragionevole è dunque quella che conviene praticare, e su questo pare convergere Pascal, il quale però risente già delle ombre e delle ambiguità della sensibilità barocca, che trova nell’Anatomia della malinconia di Robert Burton il suo monumento e da un lato consacra il binomio solitudine-malinconia, dall’altro individua nella scrittura il rimedio: Burton, per sua stessa ammissione, scrive della malinconia per liberarsene, ed è nella scrittura che Cervantes realizza il gioco di specchi fra letteratura e vita. Ma anche fra ragione e sragione, ancora concepite in un rapporto fluido che verrà invece interrotto con il disciplinamento dei folli e degli irregolari, soggetti da rinchiudere, da sorvegliare e punire, come Foucault ha diffusamente spiegato. La solitudine come oggetto di cura o di castigo, di sospetto in ogni caso, quindi. Ma che torna a rappresentarsi come rifugio, come soluzione dell’inautenticità cui la vita sociale costringe con Rousseau, e come cifra essenziale dell’anima eletta in Goethe e in Foscolo. Per arrivare a Leopardi, che nella solitudine vede “l’unica soluzione per riconciliarsi con la vita” e con il mondo da cui ci si è allontanati: gli uomini li si può tornare a stimare proprio perché sono lontani, nella sostanza. E poi la società di massa, in cui la solitudine, senza rinnegare il suo connubio con la malinconia, si sposa con l’alienazione per giungere a farsi malattia sociale di una folla solitaria in cui hanno la prevalenza le “deformazioni patologiche della solitudine”, le figure di quanti – per ragioni diverse, in età della vita differenti – si autorinchiudono in una dimensione che da privata tende a farsi autistica, dimenticando la verità che le parole custodiscono, ignorando che “intimus è strettamente legato con inter; e l’interiorità non è isolamento, ma connessione, relazione”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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