Joik

▸ dai giorni del coronavirus

Il Joik è un canto sciamanico dei Sami, i popoli indigeni dell’estremo nord della Scandinavia.

Come tutti i canti sciamanici dei popoli nativi è basato sulla voce e talvolta sulle percussioni. Sono nenie gutturali, che portano alla mente riti ancestrali e, per chi li ascolta oggi giorno, se non motivato da curiosità culturale o da qualche setta new age, risultano alquanto noiosi.

Venivano cantati dagli sciamani, ma non solo da loro, per rievocare luoghi, persone, fatti e animali che avevano avuto o avevano una valenza particolare per la storia e per la sopravvivenza del popolo Sami oppure erano esempi di virtù per la comunità.

Con la evangelizzazione, e la successiva lotta all’eresia, vennero vietati e chi li cantava e diffondeva perseguitato.

Ve ne sono decine di versioni, con modulazioni e ritmi differenti, a seconda dell’occasione e delle zone.

Una versione laica del Joik mi ha sempre colpito per la sua valenza.

Il canto è particolarmente lento, con lunghe pause tra un fraseggio e l’altro, e questo lo rende ancora più noioso, perché l’attesa del nuovo fraseggio fa sembrare ancora più lunga la pausa silenziosa.

Ma approfondendo e contestualizzando il canto, si scopre che veniva cantato in particolar modo dalle donne, nelle lunghe sere estive, sulla soglia della loro casa, posizionata su un piccolo cucuzzolo della tundra. Case di pastori e contadini a due, tre chilometri di distanza tra loro, quando andava bene.

E quindi il canto, che raccontava di fidanzamenti, matrimoni, malattie, morti, di come era andata la giornata, di fatti di particolare importanza, doveva fluire lento e con lunghe pause, perché chi lo ascoltava doveva avere il tempo che le parole gli giungessero con calma e in maniera distinta.

In questo modo poteva rispondere, da qui il fraseggio a più voci di questo canto, o rimandarlo ad altri vicini.

Raccontare e raccontarsi, sentirsi vicini nella lontananza, socializzare con chi a fatica puoi vedere ed incontrare….

Oggi, siamo un po’ tutti parte del popolo Sami, fermi sui nostri cucuzzoli mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane.

La nostra Bella Ciao, cantata da un balcone all’altro, come un Joik taumaturgico, ha parlato di persone, di morti, di speranza.

Ha raccontato anche un po’ di noi stessi. Il Joik ci ha tenuti e ci tiene uniti, con la sua ritualità che in altre condizioni non avremmo sopportato. Ci ha fatto sentire meno soli, un popolo accomunato da ideali e volontà di rinascita.

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