Disordine e dolore tardivo

▸ dai giorni del coronavirus

Noi diciamo la morte per semplificare, ma ce ne
sono quasi quante le persone.
(Marcel Proust)

La morte è questo: la completa uguaglianza
degli ineguali.
(Vladimir Jankélévitch)

L’importante è che sei qui.
Ogni volta che ha provato a raccontare qualcosa dei giorni passati, Elisa gli ha ripetuto che contava solo questo: era di nuovo a casa. E lui ha lasciato perdere: cosa vuoi stare a raccontare di cose che se uno non le ha viste non riesce neanche a immaginare.
Lo stesso al telefono, con quei due o tre amici avvertiti dalla moglie che stavano per dimetterlo: be’, adesso sei di nuovo nella tua casa, con tua moglie. Non pensarci più, cose passate.
Sei nella tua casa, con tua moglie: come prima, aggiungono. Il resto è andato, perché parlarne?
Già. Perché parlare se nessuno ha voglia di ascoltarlo. E allora non ha più detto niente, sta zitto, li lascia dire. Cosa vuoi: metterti a discutere con uno che ti ha telefonato per felicitarsi che ce l’hai fatta? O anche: hai vinto la battaglia, gli ha detto – passando per la prima volta al tu – il vicino che sta sul loro stesso pianerottolo e che è venuto fuori a salutarlo quando è tornato.
Ma cosa ho fatto, cosa ho vinto? si chiede.

Adesso mettiti a letto, intanto che io preparo il pranzo. Risposati un po’, ti chiamo io quando è pronto.
Si è commosso, appena tornato a casa, a sentire Elisa che gli parlava così, a sentire che poteva riaffidarsi alla sua cura, e gli sono venute le lacrime agli occhi quando ha visto sul suo tavolo i libri e le carte che ci aveva lasciato. Gli è tornato alla mente il pensiero che l’aveva trafitto mentre metteva da un lato i libri, accanto alla tastiera del computer, e davanti i fogli degli appunti, con la matita e la gomma. Il pensiero che forse non li avrebbe mai più letti quei libri, che quelle note non gli sarebbero mai più servite per andare avanti con quello che stava scrivendo, che non si sarebbe seduto a quel tavolo, mai più.
Da quando erano stati costretti a casa, per difendersi dall’epidemia, s’era messo a rileggere. Aveva libri comprati da poco, ancora da aprire, ci aveva provato. Ma gli era sembrato di fare una cosa fuori tempo, da rimandare a tempi migliori, quando tutto fosse tornato come prima. Leggere no quindi, ma rileggere, questo sì. Rileggere quello che aveva messo negli scaffali che ci sono nella sua camera – ormai da tempo lui e Elisa dormono in stanze diverse: il sonno di sua moglie non è più tanto profondo come una volta, quando tollerava che lui, da sempre insonne, accendesse la luce, di notte, per leggere.
Quelli che ha intorno anche quando dorme sono i libri che vorrebbe portare con sé se fosse costretto a sceglierne solo alcuni. Sono i libri che non gli chiedono che cosa sarà di loro una volta che lui se ne sarà andato: è un problema che, a differenza di quelli allineati nelle altre librerie della casa, questi non gli pongono, come se fossero destinati a seguirlo. Anche dopo.
Calvino, Pavese, Ginzburg, Rigoni Stern…E gli stranieri, Montaigne, Proust, Cechov, Mann… Un paio li ha sul tavolo. I saggi di Italo Calvino, e i romanzi brevi di Thomas Mann, ancora aperto a metà di quello che soprattutto gli era venuto voglia di rileggere, Disordine e dolore precoce.
Gli era sembrato che la situazione giustificasse il dare un addio a quei libri, eppure, mentre i due infermieri lo facevano stendere sulla barella per portarlo di sotto, si era sentito dire a Marica di non toccare niente sul suo tavolo. La donna che viene a fare le pulizie, per l’occasione era stata convocata da sua moglie, come quando si apprestavano a un viaggio e si doveva sistemare la casa in previsione della loro assenza – arrotolare i tappeti e metterci in mezzo fogli di giornale e naftalina, spostare sul terrazzino che resta in ombra la maggior parte della giornata i fiori che stavano su quello più esposto al sole, staccare il frigorifero e ripulirlo in modo da trovarlo, al ritorno, pronto ad accogliere i cibi appena acquistati dopo la vacanza. Ma adesso la donna stava lì e non sapeva che fare: la casa non sarebbe rimasta disabitata, Elisa restava. Per il momento. Stava bene, non le era venuto neanche mal di gola. L’aveva assistito per giorni, fino a che l’affanno non era passato neanche dopo che aveva smesso di tossire, crescendo anzi, fino a fargli mancare il respiro. E allora avevano chiamato il loro medico, e quello aveva trovato il modo di fargli arrivare un’ambulanza: non aveva avuto dubbi. Come prima gli aveva consigliato di starsene a casa – all’ospedale lo si prende, il virus, è il posto peggiore – a quel punto gli aveva detto che non c’era che l’ospedale. Il pronto soccorso e il ricovero.
Non si erano detti niente: Elisa, spaventata di quei suoi momenti di soffocamento, sembrava sollevata; lui, senza dirlo ad alta voce, si ripeteva le parole che altre volte aveva immaginato di dirsi, soprattutto quando sentiva il cuore saltare un battito e dargli l’impressione di un animale che scalcia, nel poi ripartire – niente di grave, una semplice extrasistole, l’aveva rassicurato un amico, da tempo pratico di quel disturbo benigno.
“Ecco, è così che succede: è arrivato il mio momento…”, si era detto, più di una volta. Tranquillo, lucido, mettendolo in conto seriamente senza crederci davvero. Qualcosa di più di un’ipotesi puramente teorica, qualcosa di diverso da un semplice scongiuro: lo metteva davvero in conto, che quel momento potesse essere il suo momento. Continuando però ad avere la sensazione di star facendo una scommessa e sentendo che l’avrebbe vinta, perché di fatto contava che il momento non era arrivato – si vede che non era il suo momento, si era trovato lui stesso a dire di chi era sopravvissuto a un malore, a un pericolo.
Ma in ambulanza, per la prima volta, come mai l’avesse fatto, il pensiero che stavolta non si trattava di una scommessa l’aveva assalito, come la zampata di una bestia sbucata dal nulla. Aveva guardato l’infermiere che gli era accanto, sull’ambulanza: un riflesso d’acciaio cromato sugli occhialoni di plastica impediva di vedergli gli occhi, e il resto del volto era coperto. Come doveva essere il suo del resto, con la maschera dell’ossigeno che gli avevano messo subito.

Parlavano di lui. Non sentiva che cosa dicevano, il rumore glielo impediva. Un rumore come di vento, di vento dentro una galleria. Ma l’aveva capito che parlavano di lui. Anche se li vedeva attraverso una plastica trasparente che gli girava tutt’attorno alla testa, e non li poteva seguire più di tanto, con gli occhi, quando si spostavano.
Si era stupito sentendo una mano che gli faceva una specie di carezza sul braccio. Doveva essere una donna. Una dottoressa, un’infermiera. Non sapeva immaginare che un uomo avesse fatto quel gesto. Sì, una dottoressa: lo si vedeva anche da come l’altro le rivolgeva cenni di assenso. Ma come facevano a capirsi chiusi com’erano in quegli scafandri bianchi? Li aveva già visti, in televisione… Era in terapia intensiva, ecco dov’era. Ma non ricordava di esserci stato portato. Non ricordava niente dopo il viaggio in ambulanza. Neanche di esserne sceso a dir la verità.
Da quanto tempo era lì? Ce l’avrebbero portato se fosse stato male qualche settimana prima, lui, ormai vecchio? Forse l’avrebbero addirittura lasciato a casa, o meglio: il suo medico non si sarebbe neanche dato da fare perché arrivasse a un pronto soccorso dove magari sarebbe rimasto tempo abbastanza per morirci…
Poi se n’erano andati. Vedeva solo il muro che aveva davanti. Non sentiva niente, solo quel rombo di vento.

Chi l’aveva detto? dove l’aveva letto? Doveva cercare fra gli autori riletti in quegli ultimi due mesi… Montaigne forse? Ma, per quanto precorritore lui fosse stato, questa gli suonava come un’idea più recente, che solo un uomo di oggi aveva potuto avere: chi poteva aver scritto che, comunque avvenga, la morte, dovrà essere la mia morte? Se fosse stato a casa si sarebbe messo a scartabellare, a scorrere le frasi sottolineate nei suoi libri: questa era in una pagina di destra, in basso, e l’aveva segnata anche con una freccia, nel margine. Come fa quando trova un pensiero che gli sembra di aver fatto lui stesso. Un pensiero suo, anche se non l’ha mai messo sulla carta.
Ma perché gli erano venute in mente quelle parole? La questione non stava in chi le aveva scritte, quello prima o poi se lo sarebbe ricordato, o l’avrebbe cercato una volta tornato a casa. Ecco, era questo il punto: sarebbe tornato a casa? Sembrava di sì… Quella mattina gli avevano detto che stava facendo grandi passi avanti, e a lui era venuto in mente il nonno, corso a vederlo quella volta che una polmonite non lo lasciava respirare. Sua madre l’aveva chiamato: Renzino non respira più! Ma era durata poco: quando era arrivato, il nonno, la difficoltà era già superata, e allora gli aveva detto che ormai respirava come un mantice. Una parola che Renzino sentiva per la prima volta. Aveva chiesto al nonno cosa voleva dire e quello si era messo a ridere, e qualche giorno dopo gliene aveva portato uno, piccolo, un soffietto da camino. Un regalo perché aveva saputo riprendere a respirare…

Da un paio di giorni per dargli l’ossigeno bastava, di quando in quando, la maschera facciale. È così che si chiama. In pochi giorni aveva imparato a parlare come loro.
Si poteva guardare attorno finalmente, anche se vedeva solo il vecchio che stava nel letto alla sua sinistra, la testa chiusa in uno di quei caschi di plastica che avevano messo anche a lui, e un altro, neanche sessant’anni avrebbe detto, che stava dall’altra parte. Sempre addormentato. La bocca spalancata.
Quella specie di carezza… Gli era rimasta in mente, e si chiedeva se era stata Rosa o Francesca, una delle infermiere, o la dottoressa Roani, come aveva pensato, a fargliela. O era stata solo una sua fantasia? Sì, lo chiamavano per nome – come andiamo Renzo? – ma non sapevano niente di lui, come lui di loro. E lo toccavano solo lo stretto necessario. Per mettere e togliere la flebo, per pulirlo…

Quando gli hanno tolto il casco, dopo che aveva avuto una nuova crisi respiratoria, ha visto che quello che dormiva sempre non c’era più. Nel suo letto c’era un altro, addormentato anche lui, ma con un tubo di plastica che gli usciva dalla bocca e finiva in un altro più grosso, passando attraverso una specie di valvola. Tutto di plastica. Non vedeva più in là. Sapeva che quello era messo peggio di lui. Nient’altro.
Peggio… che cos’era peggio, e cosa meglio? Era meglio essere svegli, ad aspettare di sentirsi di nuovo soffocare?
Sapeva distinguere ormai, dagli apparecchi che usavano, quanto uno era grave. Quanto era grave in quel momento, quante possibilità c’erano che non ne venisse fuori. Ma era inutile cercar di capire, cercare un ordine in quel che succedeva.
Loro erano bravi, non facevano che correrti intorno, ma cosa sapevano, anche loro? Uno si aggravava e moriva quando non se l’aspettavano più che accadesse, un altro potevano mandarlo fuori, in un altro reparto, perché non aveva più bisogno di quelle macchine, ma non avrebbero saputo esattamente dire perché. Il come sì, quello lo sapevano, era nelle tabelle e nei grafici che compilavano mattina e sera, per ciascuno dei malati. Ma il perché…
Non lo sapeva lui, non lo sapevano loro. Arrivava se e quando voleva, la morte. Era lì attorno, sempre. A forza di pensare ogni momento che stava per arrivare, che sarebbe stato nell’ordine delle cose – l’ordine, ma quale ordine? –, che sarebbe insomma stato del tutto prevedibile che raggiungesse anche lui, era diventata un’unica cosa, la stessa cosa, per tutti. Come uno di quei container dell’isola ecologica dove aveva a volte portato gli oggetti che non si possono buttare in un cassonetto: cose comprate, avute in regalo, o ereditate dai suoi, cose che erano state nella sua casa per anni prima di guastarsi, di essere scartate, sostituite. Cose che non avevano niente a che fare con quelle che venivano chissà da quali altre case. Eppure tutte, insieme, a fare un unico mucchio, prima di sparire.
Credeva di averci pensato abbastanza, alla morte. Ci aveva anche scritto un romanzo: il protagonista è convinto che il pensiero della morte nessuno lo ignora davvero, neanche quelli che dicono che a loro non viene neanche in mente e comunque non è il caso di starci su più di tanto.
E invece adesso… Paura? Sì, certo, paura, ma soprattutto delusione. Un dolore che gli sembrava di non aver mai provato, e continuava a opprimerlo, come se alla fine fosse venuto il momento di pagarla, di scontare una colpa. Il dolore di sentire che si era illuso, che aveva voluto illudersi, con tutti quei libri, con tutte quelle parole che aveva messo in mezzo per non trovarsi faccia a faccia con la vera questione. Con la morte.

Gelida, cristallina dalla rupe zampilla l’onda: lo sgocciolio della pipì nella padella, una mattina gli ha fatto tornare alla mente il verso di una poesia che gli avevano fatto imparare a memoria, in quinta elementare. Una poesia di cui si ripete i primi versi quando fa fatica a urinare e immaginarsi quell’onda che zampilla lo aiuta.
Gelida, cristallina dalla rupe zampilla l’onda, giù per la china fugge guizzando
Primo. Imparare delle poesie a memoria, anche da vecchi: fanno compagnia. Vero.
brilla del sole al lume, e franta – che cosa voleva dire franta? Allora gli era venuto il dubbio che fosse franca, come la bambina dei vicini – ride fra i sassi, in mezzo all’erba e canta…
Questo sì, se lo ricorda: il poeta era Arturo Graf, non se l’era mai potuto dimenticare. Anche il maestro si chiamava Graf, un veneto – ma non siamo parenti, diceva.
Arturo Graf, poeta. Più sentito da allora. Per lui poteva aver scritto Gelida cristallina e basta. Ma non gli era passato di mente neanche il nome dell’altro, quello che raccomandava di imparare poesie a memoria: Era Italo Calvino.
“Tre talismani per il 2000” gli avevano chiesto. E lui: primo, imparare delle poesie. Secondo, cercare di far bene le cose, ma soprattutto di fare quelle difficili. E farle bene, essere precisi. E terzo… Terzo…

Ci aveva pensato per giorni, a tutte le ore, anche di notte. Sapeva di saperlo, quel che bisogna fare come terza cosa, ma era come se fosse scritta dietro un vetro sporco. Non arrivava a leggerla ma sapeva che stava in una frase corta, un paio di righe. In una pagina sinistra stavolta, ma anche questa giù verso la fine. Freccia e anche un nb vicino: il nota bene scritto chissà quando, la freccia quando l’aveva riletto. Poco tempo fa. Ma le parole no, quelle non le vedeva. Doveva pensarci ancora.

È rimasto là ancora dieci giorni, poi via. In un altro reparto. Due settimane. Fino a tre giorni fa.
Ha cercato di riprendere, come prima. La mattina leggere, scribacchiare qualcosa: negli ultimi tempi era tornato su certi racconti sulla sua infanzia, la sua famiglia, la casa dove stavano, e dove lui abita ancora. E si era accorto che quei racconti, scritti in tempo diversi, potevano essere letti come un romanzo, se ci lavorava un po’, se ne aggiungeva qualcuno che aveva lasciato allo stato di appunto.
I giornali li ha già letti, qualcuno già la notte, sul telefonino, gli altri la mattina presto, che c’è ancora buio.
Lavora – lavora, dice così, e dice così anche Elisa – fin verso le due. Dopo pranzo dorme, fin verso le quattro. Poi di nuovo a leggere, romanzi il pomeriggio: autobiografie, che gli servono a pensare al suo romanzo fatto di racconti. E la sera la televisione, i notiziari, un film.
Come prima, più o meno. Solo gli orari un po’ spostati avanti, ma per il resto… La giornata è quella, a voler vedere. Le stesse cose alle solite ore, eppure senza il minimo sentore di monotonia. Senonché, non è niente come prima. Le abitudini, negli ultimi anni, davano ordine alla giornata. Niente a che fare con la noia, erano tutto il contrario del lasciarsi vivere. Erano frutto dell’aver preso atto che la vita è soprattutto ripetizione: lo sapeva da bambino, quando andava a scuola, faceva i compiti, giocava in cortile, e aveva sempre qualcosa di scorta che poteva fare. Disegnare, sfogliare l’enciclopedia, fare le bolle di sapone, contare le macchine d’un certo colore che vedeva dal balcone…
Leggere, scrivere, sempre ascoltando musica, così da anni… Ma adesso sente che queste non sono più le risorse che aveva quel bambino di cui ha ripreso a raccontare.
Adesso fanno solo finta di dar ordine alla giornata, le abitudini. Credeva di aver trovato una regola, nella propria vita, e adesso gli pare di recitare la vita di un altro. Un altro che pretendeva di aver trovato il modo di mettere ordine nel suo tempo.

Il libro è lì, non l’ha tolto dal tavolo. Il secondo volume dei saggi di Calvino. Il segnalibro è ancora dove l’ha messo il primo giorno: appena entrato nella sua stanza aveva cercato quella cosa, e non ci aveva messo molto, ricordava che doveva essere stato in un’intervista che gli avevano chiesto dei tre talismani… E difatti l’aveva trovato subito, il terzo: “sapere che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro”.

Un commento su “Disordine e dolore tardivo”

  1. racconto molto intenso. Parole efficaci che sembrano descrivere un’esperienza vissuta in prima persona. Forse sognata?

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