Una vita da buttare

Si lascia cadere sfinita sulla poltrona, come se s’abbandonasse, come se ci si sprofondasse dentro. Il dorso preme contro la stoffa morbida e anche la testa si affloscia. Che meraviglia lo schienale alto, tutta la superficie posteriore del corpo può aderirvi e anche il collo trova sollievo e quella contrattura, quell’irrigidimento che si estende alle spalle e al braccio destro si affievolisce. Le poltrone bergère, stile francese, calzano a pennello anche al collo. Ci si annida dentro, si scava uno spazio con i fianchi, distende le gambe sul puf e stoffa e imbottitura sembrano prendere la forma del suo corpo che, poco alla volta, prova a lasciarsi andare. Che lavoro svuotare una casa, che sofferenza per la schiena. Questa poltrona arriva da questa fatica: smontare e vuotare la casa della mamma ormai residente in casa di riposo.

Qui nella casa al lago, di una poltrona c’era bisogno. Anche la tinta si accorda a quella dei divani. Mi sono portata al lago un po’ di mamma – pensa e sorride all’idea che anche la mamma a quest’ora stia riposando. Sarebbe contenta di sapere che sua figlia si è accoccolata nella sua poltrona color tabacco. Dopodomani ultimo atto: si cede la gestione della casa all’agenzia immobiliare per l’affitto.

No, lei non crede che le cose abbiano un’anima. Un’anima no, una storia sì. Svuotare una casa è come rileggere una storia dalla fine, rivedere un film dai titoli di coda.

Per la mamma non si tratta di una fine, ma di un nuovo inizio – si dice un po’ per consolarsi, anche se è innegabile che sia rifiorita, che la vita in collettività l’abbia rianimata, che le abbia consentito di tessere nuove relazioni, addirittura la speranza di un amore. Ma di una fine si tratta pure, della fine della consapevolezza, di giorni ordinati secondo un senso. Ora vive in una sorta di flusso continuo, presente solo a tratti e mai del tutto. Abita quel luogo come una gran dama in vacanza in un hotel di lusso: sorride e saluta tutti, azzarda una battuta sul tempo, si complimenta per un nuovo gioiello, gioca a tombola, canta, ascolta le opere, mangia e dorme bene. Ogni tanto chiede della sua casa, se i fiori sono stati innaffiati a dovere, se tutto è in ordine, ma di tornarci non sembra avere voglia.

Lei svuota quella casa a nervi scoperti, come se ogni oggetto in qualche strano modo le ustionasse le dita. Svuotare una vita, riavvolgere il filo sul rocchetto. Con che diritto? Chi l’autorizza a compiere quell’operazione impietosa? Può una figlia scavare a mani nude nella vita della madre senza peccare d’indiscrezione?

I giorni che avevano preceduto l’evento erano stati segnati dall’insonnia, intrisi di una tristezza dolce e rosicchiati dai dubbi: da dove avrebbe cominciato? Dalla cantina, per fare posto alle cose da tenere o dalle stanze per affrontare la questione di petto? Tolto il dente…

Suo fratello la scuote dal torpore, come sanno fare gli uomini, forti o deboli, comunque armati di un pragmatismo a suo modo utile: quante storie – dice – si va e si comincia. Ma, nel prosieguo dell’opera comincia a mostrare una fretta eloquente, come s’imponesse gesti veloci per non sostare troppo di fronte a quella vita in disgregazione, faccia a faccia con i morsi dei ricordi. Il suo distacco pare affievolirsi ora dopo ora, ogni volta che riemergono da un cassetto un paio di guanti, una fotografia di loro bambini, si irrigidisce, cerca di smarcarsi in un fragile tentativo di liquidazione sommaria: non è che possiamo passare anni a valutare i vecchiumi. Buttare, buttare subito.

Ma lei, che lo conosce da decenni, sa decifrare quel lieve tremore del mento, quelle increspature del labbro superiore. Allora passa oltre e archivia.

Per lavorare con criterio e con razionalità si devono stabilire delle categorie: oggetti da tenere, quelli per lei e quelli per suo fratello, oggetti da dare in beneficienza, cose da buttare e quelle del vedremo più avanti.

La categoria del vedremo più avanti è per lei la salvezza. Non si può soffrire tutto d’un colpo, meglio infliggersi piccole ferite e rimandare. E poi alcuni oggetti potrebbero servire in futuro. Falso, falsissimo: ha ficcato nella sua categoria d’elezione pezzi da museo inutilizzabili e lo sa bene. Suo fratello, suo marito, la cognata, le figlie e le nipoti, insomma tutti, la sorvegliano diffidenti, concordando col fatto che si debba fare le cose una volta per tutte: si tiene o si getta.

È una scatolina di porcellana rettangolare, il coperchio ingentilito da un fiore appena accennato a tinte tenui. La ricorda da sempre e da sempre le piace: la tiene. Se la rigirava nelle mani da un po’. Si porta appresso la loro prima casa vicina alla stazione, il vecchio salotto anni ’50. Ci tenevano dentro le monete piccole, qualche forcina per i capelli. Era associata a uno dei set di tazze da tè che la mamma aveva ricevuto come regalo di nozze. Da piccola avrebbe voluto giocarci ma non le era consentito per via della fragilità e del presunto valore. Qualche volta doveva avergliela concessa perché, a guardarla bene, è rotta e incollata in più punti. Sta insieme per miracolo. Mica vorrai portarla a casa? – giusto, che cosa ci si potrebbe fare con quel rudere plurifratturato? Eppure, osservare la scatolina di porcellana andare incontro alla propria sorte con compostezza la riempie di pena. Aspetta che tutti siano impegnati nella valutazione successiva e la riprende in mano, la guarda ancora a lungo, l’accarezza e la saluta, provando a riporla nel pacco del si getta.

Poi un lieve sobbalzo, come se qualcuno o qualcosa la chiamasse: la scatolina di porcellana ripudiata a fatica la implora, col suo fiore struggente, di risparmiarla. La riprende di nuovo in mano sentendosi un’ingrata, ma il coperchio, levigato dagli anni, le si rompe fra le dita, la colla non tiene proprio più. Impossibile garantire un futuro alla scatolina incantatrice.

C’è in lei ancora molta, troppa traccia dell’infanzia si dice – ma non ci si può fare nulla, alla sua età non si migliora. Sente che quella scatolina continuerà ad inseguirla nei sogni. Dovrebbe tenerla, in fondo sono vecchie entrambe.

E questo obbrobrio che cos’è? Sente chiedere alle sue spalle dalle ragazze che brandiscono un vecchio fustino di detersivo. Non si usano più questi contenitori cilindrici, ora sono più squadrati e soprattutto si buttano una volta svuotati. Un tempo ogni oggetto aveva molte vite, più usi e, prima di arricchire la spazzatura, diventava fonte di progetti, di ciò che oggi si chiama pomposamente riciclo. Le mamme in passato riciclavano eccome, tiravano le stoffe finché non si sbrindellavano, rigiravano i colletti delle camicie consunti per sfruttarne anche l’altro verso. Era una cultura che non concepiva sprechi di sorta, anche le croste di formaggio si cuocevano nella minestra e il pane vecchio veniva abbrustolito per la colazione. Questo testimone del secolo scorso era stato rivestito dalla mamma con la stoffa della prima vestaglietta da camera di lei bambina, regalatale per Natale, forse a sei o sette anni. Una stoffa stupenda con dipinte rose stilizzate a tinte forti. Quando aveva cominciato ad andarle corta, non potendola passare a suo fratello, la mamma l’aveva disfatta per farne il rivestimento esterno del fustino del Dash. L’interno era foderato in rosa con tasche annesse che si usavano come contenitore di phone, bigodini e forcine. Sono i colori di quella stoffa ad affascinarla. Ricorda di averla osservata per molte sere prima di addormentarsi dal suo lettino: una bambina con una vestaglia così bella avrebbe potuto diventare una regina o forse una fata.

Ora la guarda affascinata mentre razzi di felicità le attraversavano gli occhi. Come si può non notarne la bellezza? Quella stoffa vivace la scalda come un tempo e, come allora, la fa sentire un pulcino.

Lo smarrimento l’afferra alla vista di quell’anticaglia sgangherata che va evidentemente buttata. Ma i colori non smettono di mormorare. Prova a tastare la stoffa per capire cosa se ne possa fare. Ma lei non ha abilità sartoriali, deve lasciarli andare quei colori si dice – non sta lì la fedeltà all’infanzia. Eppure mentre ripone il fustino nel mucchio delle cose da buttare, gli occhi le si appesantiscono e comincia a sentirsi un albero assonnato, stanco, incapace ad adattarsi al fluire del tempo. Non si può restare impigliati nell’infanzia, custodire il passato, bisogna lasciare che la vita faccia il suo corso.

Si guarda intorno, passa un dito sulla polvere di vecchiaia distesa sulle cose, prova a rassegnarsi, a sottrarsi alle oscillazioni temporali, a chiudere una vita come si spegne la luce, a fare il vuoto in quel troppo pieno senza tradire.

Vociare di bambini che corrono a stormi sulla scorza spessa e candida della neve. Urla gioiose che sembrano appendersi ai rami, corse che non lasciano traccia. Lei è una di loro, lei è la madre che si sgola scalza sulla soglia a richiamare la nidiata. Qualcuno la sta chiamando dal silenzio.

Sogni intricati accompagnano le notti di giorni in cui negoziare con il passato è un ruminare improduttivo. E ancora non si intravvede la riva.

I mobili sono più facili, la mamma li aveva comperati per lo più quando già loro erano usciti di casa. Aveva voluto traslocare, giustificandosi con l’eccesso di spazio per una persona sola. Forse sentiva il bisogno di un taglio con la vita familiare d’un tempo, con uno stare insieme ormai impossibile.

Una credenza all’uno e una all’altra. Lei sceglie anche il cestino da lavoro, non perché sappia cucire: per via dei colori dei fili, delle scatole degli aghi e degli spilli con la capocchia variopinta e per quell’apertura a fisarmonica che le è sempre piaciuta. O sono le molte ore trascorse dalla mamma a cucire o a ricamare mentre lei giocava, poi mentre studiava, a farle adottare quel mobiletto consunto con la chiusura difettosa? Quel cestino mette magicamente in moto un acquarello: come i colori, i giorni trascorsi con lei si sovrappongono in superfici trasparenti, come i piani delle pennellate gli anni fluttuano, si ricoprono l’un l’altro, avanzano, indietreggiano. Il passato invisibile viene avanti, germoglia dentro di lei, perfora la pelle delle cose, il legno del cestino da cucito.

Una brocca alta e slanciata con la sua linea flessuosa ha qualcosa di commovente, la tenta, l’attira a sé come per irraggiamento. O forse si tratta di uno smottamento interiore che le impedisce di eliminare e che la tiene vittima della vibrazione di quelle cose del passato. Sono solo cose – continua a ripetersi – eppure sono quelle cose che riescono a tenere aperto il tempo, a impedire al passato di chiudersi dietro di lei. Restare fedele al passato attraverso l’ombra che le cose di un tempo proiettano sulle nervature del presente. Affidarsi ad un’ombra, a un’impronta.

Ma che cos’è un’anima se non un’impronta sul reale, quella particolare, specifica impronta che un essere umano lascia, inconfondibile? Ma una cosa è una cosa e non c’è da farci sopra della filosofia. Eppure non riesce a ridurre quegli oggetti vecchi e sgangherati a complementi d’arredo, ci sente infuriare dentro il passato, il loro passato, le storie di famiglia, i giorni senza eventi, le briciole dei suoi anni, gli ingredienti di un’esistenza. Non è l’anima delle cose in questione, è la sua stessa anima, o quello spazio dell’anima che ospita il già stato, che attraverso l’ombra intima delle cose appartata nel ricordo impedisce lo sperpero. Quelle cose sono come il pane vecchio tostato nel latte la mattina. Se le buttasse si accovaccerebbero nei sogni e la notte solleverebbero il loro brusio ineludibile. Come trovare allora il coraggio di prendere il largo del sonno, di esporsi ai sogni, di sostare in quello stato indefinibile fra il dormire e il vegliare in cui il cielo si squarcia e si scatenano le correnti fredde pronte a risucchiarla?

Con un gesto irriflesso afferra la brocca dalla superficie marmorizzata e la mette nelle cose da tenere, in quelle che avrebbe tenuto lei.

È un malcontento pieno di contegno quello di suo marito, già si prefigura la casa zeppa di ciarpame. Eppure non insiste, la lascia fare, sente la sua fatica e ne ha compassione. Forse le butterà più avanti, forse ha necessità di una tappa intermedia.

Nel fondo di un cassetto, una scatola: contiene lettere, molte lettere ancora nelle buste. Sono raggruppate in pacchetti tenute da nastri di colori diversi. Ne disfa uno e apre una lettera, una di quelle che lei ha scritto a sua madre e una vertigine la riporta in una Londra di più di quarant’anni prima, in uno squat, una casa occupata con un meraviglioso giardino incolto. È troppo, oggi non leggerà nessuna lettera, né sue né di altri. Chiude la scatola di latta e la mette nel gruppo delle cose da portarsi a casa. Dovrà trovare il coraggio per leggerle, ma ci vorrà tempo.

Oggi è sola nella casa materna. Le spartizioni sono avvenute, sacchi di cose vecchie sono state gettate, resta ancora la categoria del vedremo più avanti che lei si è impegnata a rivedere e a smagrire. È la sua categoria, l’ha inventata lei e le cose che la abitano non le vuole nessuno. Ci sono i suoi ricami a mezzo punto, ore e ore seduta a fantasticare mentre le mani lavoravano di fino. La mamma li aveva fatti incorniciare per darle valore, per lodarla. Sperpera la mattinata a riprendere in mano tutto, un oggetto dopo l’altro con filatelica pazienza, senza scartare nulla, riluttante, impacciata, fiacca, come ricoperta da una patina di sconforto.

È una prova di lutto a madre ancora in vita – si trova a pensare –, il preludio all’essere orfani, scaraventati in prima linea, i più vecchi, senza nessuno dietro di sé. Sarebbe stata lei la decana, lei avrebbe sostituito la madre.

Come si regge lo spettacolo di una vita che si spegne, di una donna costruita per successive aggiunte di essere che si diluisce fino a estinguersi? Come stare nel vuoto senza quel senso di angoscia?

È questo la sua attenzione parossistica alla conservazione: trattenere il senso ultimo di una vita.

Non è una cosa saggia quella che le sta succedendo. Versa qualche lacrima con sorpresa, si era ripromessa di evitarlo. Niente commiati, solo buon senso. Prova a scopare fuori di sé i tentennamenti, prova a spogliare gli oggetti del loro passato, dell’anima: una tovaglia è una tovaglia, se non serve si regala senza violare alcun patto. Spogliare le cose della loro identità, della loro storia, di tutto quello che lei, solo lei, ci appiccica. Proprio come sua madre che datava ogni fotografia, che incollava biglietti sul retro dei quadri o delle ceramiche: luogo, data e contesto, spesso accompagnati da commenti arguti.

Solleva il capo, prova a spianare il viso e i muscoli del collo, ad allontanare quella rigidità e quell’ombra di malumore. Riprende in mano un piatto dipinto a mano con fare deciso, senza oltrepassarne la superficie, senza soffermarsi con lo sguardo. Non vuole entrare in intimità col piatto, ricordare da quale viaggio sua madre l’ha riportato. Non lo gira, evita di vederne il retro per contrastare il vento della memoria. I ricordi sono pietre pesanti da trascinarsi dietro.

Sono una brava figlia anche se lo butto – dice fra sé e sé mentre prova a guardarsi con gli occhi di sua madre. Quella notte ha sognato che gli oggetti buttati si sono ripresentati a casa disponendosi da soli nei posti consueti, per poi prendere il volo al suo arrivo e ronzarle intorno come vespe arrabbiate.

Sa che il bisogno di restare attaccata alle cose è il suo ponte sul vuoto, sullo sgomento di vivere. Sa che non funziona, che continuerà a sentirsi un albero vacillante sotto il vento con o senza la vecchia caffettiera rossa, con o senza le strie che gli anni lasciano dietro di sé. Eppure non può smettere d’essere una corda sensibile che vibra fra presente e passato, nel quotidiano esercizio di tenersi in carreggiata senza opporre resistenza al tempo, almeno di giorno. Poi quando si apriranno le grandi porte della notte e la memoria non avrà pietà, l’infanzia riemergerà pur senza invito, tutti i presenti trascorsi torneranno a ingarbugliarle la testa e al mattino la navigazione sarà ancora difficile.

Ora la casa è più libera: il vuoto ha preso il posto dei mobili. Un vuoto risonante di tristezza. È arrivata al traguardo come un’ombra. Si accascia esausta vicino ai resti della sua volontà, come se la sua integrità fosse stata messa a dura prova. Dovrà darsi pace, pur nell’inquietudine e nell’agrodolce dei ricordi. A una certa età sembra proprio che tutto si muti in malinconia.

Quello spazio disadorno non la ferisce più, ha perso il suo potere, eppure anche in quelle stanze quasi anonime ha l’impressione di non essere sola.

Poi chiude la porta e prova in silenzio a prendere congedo. Si guarda le mani vuote e se le ficca in tasca. Sensazione di ruvidità, di durezza nella mano sinistra, rivolta la tasca e ci trova il vasetto di rame scalcagnato che la mamma teneva in ingresso: davvero impresentabile – pensa – mentre lo ripone in tasca. Un mezzo sorriso le si disegna sulle labbra dove affiorano inattese le parole di Adriana Zarri:

Adesso chiudo il mio cassetto:
i giorni sopra i giorni,
le lune sopra alle lune,
in ordine.
Non ho più niente da fare.
Va tutto bene così.

Agosto 2019

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