Una lettera d’amore

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La donna stava davanti al banco del verduraio e, strizzando gli occhi dietro le spesse lenti da miope, cercava di decifrare i prezzi, scritti a mano, in euro, sui cartellini che spuntavano dalle cassette dei pomodori, delle zucchine, dei fagiolini.
La sua mente viaggiava come una calcolatrice, traducendo gli euro in lire, facendo i conti con quanto le restava dopo aver già acquistato un pezzo di fegato, due etti di formaggio stagionato e mezzo chilo di pane. La frutta l’aveva già scartata in partenza: i prezzi erano proibitivi e aveva deciso che non se la poteva permettere, neppure una di quelle pesche bianche che le ricordavano la sua infanzia, riempiendola di un languore struggente.
Il padrone, nonostante non vi fossero altri clienti, pareva impaziente.
Scelse quattro zucchine e una manciata di fagiolini. Di patate ne aveva ancora a casa e le potevano bastare per almeno una settimana.
“Due euro e ottanta” disse l’uomo e lei infilò la mano nella borsa per prendere il portafoglio, rendendosi conto, con un tuffo al cuore, che non aveva chiuso la cerniera e la borsa era aperta.
Rovistò febbrilmente all’interno: il portafoglio era sparito.
Gli occhi le si velarono di lacrime.
“Me l’hanno rubato” disse piano e il verduraio la guardò con aria un po’ scettica.
“Cosa le hanno rubato?”.
“Il portafoglio, mi ero dimenticata la borsetta aperta……” e tese all’uomo il cartoccio, per restituirglielo.
L’uomo ebbe una piccola esitazione.
Quella donna, una zitella intorno alla quarantina, lui di vista la conosceva, l’aveva già classificata sulla base della spesa che, di quando in quando, faceva al suo banco. Doveva abitare da quelle parti. Vide le lacrime che le avevano inumidito gli occhi.
“Tenga pure, lo segno, mi paga la prossima volta” e, quasi a forza, le restituì zucchine e fagiolini.
Per i venditori di frutta e verdura erano tempi grassi, di quella donna si fidava e al più, non ebbe bisogno di fare grandi calcoli, ci avrebbe rimesso meno di un euro.

Paolino non aveva neppure vent’anni, ma era già un tossico strafatto.
Suo padre, un geometra del comune, aveva pazientato per mesi, poi aveva ceduto alla disperazione. Ormai quel ragazzo, che aveva piantato la scuola e vagava per casa come uno zombi, perlomeno nei rari momenti in cui c’era, non poteva più tollerarlo. Ai soldi che sparivano regolarmente dalle sue tasche e da quelle della moglie, si erano aggiunti gli oggetti di qualche valore, i cucchiaini d’argento, un vassoio, i libri, addirittura un paio di cappotti che Paolino certamente rivendeva per quattro soldi, quanto gli occorreva per farsi una dose.
Il buon geometra le aveva provate tutte ed era arrivato al capolinea: di figli ne aveva altri due, una ragazza di diciassette anni e una, tardiva, di otto e non riusciva più a sopportare sua moglie, perennemente con gli occhi gonfi, che dietro a quel figlio ci moriva.
“Qui” si disse “è una questione di sopravvivenza, o Paolino o il resto della famiglia” e, fatti due conti, col cuore che gli sanguinava, scelse il resto della famiglia e mise Paolino alla porta, dicendogli espressamente che per lui era morto e non avrebbe mai voluto saperne più nulla.
La moglie passò intere nottate a singhiozzare ma finì col farsene una ragione, anche perché l’atmosfera era cambiate e le due ragazze parevano rifiorite.
La vita per Paolino fu dura, ma era un ragazzo che di risorse ne aveva e in poco tempo diventò un esperto borseggiatore, individuando le due aree privilegiate che gli consentivano di sopravvivere e di placare il demone che aveva dentro: i tram, affollatissimi nelle ore di punta e i mercati all’aperto. Era facilissimo sfilare un portafoglio a un vecchio, magari dopo avergli inciso con una lametta la tasca posteriore dei pantaloni o trovare una borsa aperta in cui infilare una mano senza che la donna se ne accorgesse.
Quel portafoglio vecchio e sgualcito non gli risolveva la situazione: in tutto vi pescò tra biglietti e monete una cinquantina di euro.
“Meglio di niente” pensò Paolino e intascatosi il contante si disfece del portafoglio, buttandolo lungo la strada, al di là di una rete metallica.

Il campo nomadi, sette, otto roulotte e alcune macchine semisfasciate, stava in uno spiazzo, duecento metri più in là.
Ogni mattina Zoran, uno slavo sulla quarantina, accompagnava Dimitri, Katia e Sonia, un maschietto e due ragazzine sui dodici, tredici anni, alla fermata dell’autobus. I tre piccoli gli erano arrivati dall’est dopo un lungo peregrinare, passando di mano in mano. Non era stato un cattivo investimento perché avevano imparato alla svelta, incoraggiati da un sorriso, da qualche consiglio e da opportune cinghiate che servivano, secondo Zoran, a fissare meglio i concetti.
Nel giro di un mese, muniti di cartelli compitati con una grafia incerta e destinati a commuovere i passanti di cuore tenero o quelli che, con un’elemosina giornaliera si conciliavano con la propria coscienza, riuscivano a portare a casa una discreta sommetta. Chi ci prendeva di più era Dimitri, che aveva perso la mano destra su una mina, e aveva due occhini chiari e tristissimi che avrebbero messo in seria difficoltà anche un leghista convinto.
Fu proprio Dimitri, mentre stava varcando il buco della recinzione, a scorgere tra l’erba bagnata il portafoglio. Si guardò indietro. Zoran, attento, seguiva tutti i loro movimenti e Dimitri gli tese timidamente il portafoglio. Zoran lo aprì: niente contanti, ma, in uno scomparto interno, una tessera bancomat scaduta e un paio di schede telefoniche. Qualcosa poteva sempre ricavarne: si intascò i documenti e gettò il portafoglio in un cassonetto dei rifiuti, mentre stava arrivando l’autobus che doveva condurre i tre ragazzi in centro, agli angoli assegnati.

La vecchia Teresa viveva in un garage di un edificio fatiscente che sorgeva poco lontano. Molti appartamenti, dai quali erano stati rubati perfino gli infissi, erano ormai disabitati. Vi resistevano solo alcune famiglie di extra comunitari che, con tutto quello spazio a disposizione, stavano asserragliati nei pochi metri dei locali ancora agibili.
Correva voce che l’edificio avrebbe dovuto essere abbattuto, insieme ad alcuni altri nelle vicinanze, per far posto a un ipermercato con annessa una multisala cinematografica. Tutta la zona, edificata in fretta e furia nei primi anni sessanta, rientrava in una variante del piano regolatore e alcuni occhiuti palazzinari che in Comune avevano sicuramente gli agganci giusti, avevano per tempo messo le mani su gran parte dell’area.
Teresa si accontentava comunque del suo garage: era ormai vicina agli ottanta e non le era mai passato per la testa di sistemarsi in qualche locale dei piani superiori. Un po’ per timidezza, ma soprattutto perché, pur percorrendo ogni giorno qualche chilometro a piedi, trascinandosi dietro il suo trespolo a rotelle, di fare le scale proprio non se la sentiva. Una volta, per semplice curiosità, ci aveva provato, ma dopo una rampa le era sembrato che il cuore perdesse i colpi.
Partiva ogni mattina, a meno che non diluviasse, e si dirigeva verso la città, curando tutti i cassonetti e i cestini dell’immondizia che trovava sulla sua strada. Non era la sola a farlo: vi erano altri disperati come lei, ma per la Teresa tutti provavano rispetto e, tacitamente, era stata effettuata una sorta di ripartizione che le consentiva di condurre le sue ricerche quasi senza concorrenti.
Viveva di ciò che di buono trovava, continuando a meravigliarsi di tutte le cose che ormai la gente buttava. Verso sera, finito il suo giro, passava col suo trabiccolo ricolmo da un paio di robivecchi che la conoscevano da anni e che, senza discutere sul prezzo, prendevano tutto, anche quello che avrebbero a loro volta buttato, dandole di che tirare avanti per un’altra giornata. Quello della vecchia era un lavoro come un altro, lei almeno la pensava così, e nessuno l’aveva mai vista tendere la mano. Per i cestini non c’era alcun problema: poteva frugarci fino in fondo. Altro discorso invece per i cassonetti, dei quali, sollevato a fatica il coperchio, riusciva a esplorare solo ciò che stava in superficie. Più giù non riusciva ad andare.
Il portafoglio era stato buttato da poco e Teresa lo adocchiò subito e se lo mise in una tasca del giaccone a scacchi che indossava estate e inverno. Non che ci sperasse molto: il portafoglio era vecchio e senza alcun valore e dentro, quasi sicuramente, non ci sarebbe stato nulla. Proseguì il suo giro e quando arrivò verso il centro, erano ormai quasi le undici, si sedette sulla solita panchina, in un giardinetto, e prese a masticare a fatica, coi quattro denti che le restavano, il panino imbottito che si era portata dietro. Le tornò in mente il portafoglio e, mentre con un palmo della mano stava ripulendosi la bocca dalle briciole, lo prese di tasca e lo aprì. Come si aspettava era desolatamente vuoto ma, dall’angolo di uno scomparto, spuntava un rettangolino stampato che sfilò delicatamente: erano due francobolli che, per quanto ne sapeva, le sembrarono ancora buoni. Aveva un figlio che anni prima era emigrato per una città lontana. Le aveva fatto una promessa, non ancora mantenuta, ma Teresa non aveva rinunciato alla speranza di ricevere, un giorno o l’altro, una sua lettera con l’indirizzo. I francobolli avrebbero potuto servirle e li infilò nel suo portamonete. Dal portafoglio era quasi certa di non poter ricavare nulla: forse anche il robivecchi non l’avrebbe voluto e tanto valeva disfarsene. Fu allora che le venne un’idea che la riempì d’allegria. Cosa c’era di meglio che lasciarlo sulla strada di fronte, mentre nessuno l’osservava, e poi stare a vedere come si comportava la gente? Attraversò la strada e, datasi un’occhiata in giro, lasciò cadere l’oggetto vicino al gradino del marciapiede, poi tornò soddisfatta alla sua panchina e si preparò ad assistere allo spettacolo.
Dovette attendere parecchi minuti: i passanti erano frettolosi e camminavano per lo più a testa alta, senza mai chinare il capo. Una donna che spingeva una carrozzina addirittura lo calpestò senza accorgersene.
Stava per andarsene quando vide avvicinarsi un uomo che camminava lentamente, assorto nella lettura di un giornale che teneva in mano e che ogni tanto sfogliava, forse alla ricerca di una notizia o di una pagina particolare. Per lo meno, quando girava un foglio, si fermava e i suoi occhi si abbassavano verso il marciapiede. Teresa lo osservò con interesse e le sue aspettative non andarono deluse. Si accorse che l’uomo, già un paio di metri prima, aveva visto il portafoglio e aveva rallentato il passo, mettendosi il giornale sotto il braccio. Si chinò a raccoglierlo e con il portafoglio in mano si guardò in giro per un momento. La prima impressione di Teresa fu che fosse preoccupato di essere osservato, ma poi dovette ricredersi. Teresa era una donna intelligente e dopo un attimo capì che l’uomo stava semplicemente cercando di capire se qualcuno lo avesse perduto in quel momento. La gente però gli scorreva accanto distratta e l’uomo finì col mettersi in tasca il portafoglio e riprese la sua passeggiata. Teresa ridacchiò tra sé pensando all’inevitabile delusione che lo avrebbe preso quando lo avesse aperto.

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