Fratello Bartleby

Daniel Pennac, Mio fratello, Feltrinelli 2018 (pp. 121, euro 14)

“Le lacrime non c’erano più. Mio fratello arrivava all’improvviso e adesso il mio magone non lo cacciava più via”: a sedici mesi dalla morte di Bernard – un fratello paterno, anche se maggiore di lui solo di qualche anno – Daniel racconta dell’elaborazione di un lutto che all’inizio l’aveva ridotto all’inconsapevole ricerca di seguire il congiunto nella morte. Incidenti, all’apparenza. Distrazioni che potevano rivelarsi fatali.  Ma proprio lo star dentro il dolore della perdita, il far sì che si faccia “ospitale”, l’accettarlo “così com’è”, indica la via per “riprendere in mano la situazione”: “mi sono detto che avrei scritto qualcosa su di lui. Su di noi.” E Bartelby, col suo enigmatico  preferirei di no, diventa il tramite di una narrazione in cui le pagine di Pennac dialogano con quelle di Melville: era stato il fratello a passare quel racconto a Daniel, ma altro lega la storia dello scrivano alla memoria viva dello scomparso. Un’affinità profonda congiunge l’umorismo che era di Bernard a quello, involontario (?) di Bartleby, ma comune ai due si rivela soprattutto una discrezione confinante con la volontà precisa di sottrarsi agli altri, di fuggire la “confusione del mondo”, un atteggiamento silenziosamente riluttante che si traduce in uno sguardo che non giudica, in una riservatezza estrema dei propri sentimenti: in una progressiva presa di distanza dalla vita, nella sostanza (prima di morire sotto i ferri di un chirurgo, Bernard aveva già rischiato di morire a seguito di un precedente intervento mal eseguito; eppure, ripresentatosi il male, era tornato nella stessa clinica).

E’ nella riduzione del racconto di Melville a monologo teatrale, nell’impararlo a memoria recita dopo recita, che Daniel si lascia alle spalle la disperazione senza per questo rinunciare alla profonda vicinanza con il fratello che non c’è più: “Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente, in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio fratello”. La memoria non diventa ricordo, si mantiene attiva, conserva il sapore di una relazione essenziale e pure indefinita: “Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho perso”. Sono le relazioni che sanno mantenere il senso dell’alterità – sembra dirci Pennac –, che si alimentano del non detto, e sono in grado di  accettare che l’unicità dell’altro resti inafferrabile, sono queste le relazioni che neanche la morte può sciogliere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

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