Vite al dunque

Nicole Krauss, Selva oscura, Guanda 2018 (pp. 323, euro 19)

Hanno un fascino particolare le storie di sparizioni, di volontarie diserzioni dalla trama delle relazioni nella quale si vive immersi, tanto più quando a prendere una decisione in questo senso è un uomo non più giovane ma ricco, affermato, esuberante, possessivo.

Il quale tuttavia – siamo alle prime pagine del romanzo – sente il desiderio di ritrarsi, e di disfarsi di quello che possiede. Perché? Perché fa quello che non faceva più da anni: “Di rado aveva sollevato il capo al di sopra delle poderose correnti della sua esistenza, troppo occupato com’era a tuffarcisi in mezzo. Ma adesso c’erano momenti in cui riusciva a contemplare l’intero panorama, fino all’orizzonte.” Sta di fatto che “negli ultimi mesi c’era stato in  lui un lento dispiegarsi della consapevolezza di sé”, sino a disfarsi di quello che l’aveva tenuto prigioniero: l’ossessione della sicurezza. Ora “non voleva essere sicuro. Aveva perso la fiducia nella certezza”, e questo gli dà un senso di liberazione; qualcosa riprende “a scorrergli dentro come acqua che riprende a fluire nel letto asciutto di un fiume scavato molti anni prima.”

L’altro protagonista, che a capitoli alternati tiene la scena, è la moglie. Un matrimonio finito, il loro, come finisce ogni cosa se la si guarda abbastanza a lungo: “a un certo punto la familiarità si trasforma in estraneità”. Si dice altro di questa fine, con la precisione e la ricchezza di osservazioni che di solito accompagnano la nascita, non la fine, degli amori.

Lei è una scrittrice. Anche per lei la vita è a una svolta, ma non per quella sorta di palingenesi indistinta e appena intravista che vive il marito. Al contrario, lei è in una fase di stallo: “Avevo perso la strada. (…) Avevo finito di scrivere un libro senza averne iniziato un altro e sapevo che avrei potuto impiegare anni a trovare la strada giusta per scrivere il successivo.” Il problema è serio, non si tratta di un ordinario e passeggero blocco dello scrittore. Perché “la scrittura, il cui scopo è attingere a un significato fuori del tempo, è costretta a raccontarsi una menzogna proprio sul tempo; in sostanza, deve credere in qualche forma d’immutabilità, ed è per questo che consideriamo grandi capolavori della letteratura le opere capaci di resistere alla prova dei secoli, se non dei millenni. E questa menzogna che ci raccontiamo quando scriviamo mi mette sempre più disagio”.

Di lui, l’autrice scrive in terza persona; di lei, in prima. Ma ad accomunare le due storie che scorrono in parallelo è il motivo che attraversa la narrazione, più o meno sintetizzabile nella constatazione che l’età, l’esperienza della vita, non accrescono la padronanza su di essa e su noi stessi: è il contrario che avviene se mai, ma allo stesso tempo qualcosa matura: il desiderio di accettare quello che ci capita.

E’ ricco di intuizioni, di aperture su verità esistenziali decisive, questo libro, tanto da che gli si perdona lo sviluppo sempre più incerto e rarefatto della vicenda, fino a un finale che dire aperto non basta a dar l’idea dello sfilacciarsi progressivo di una trama che in vero non era apparsa, fin dall’inizio, l’elemento portante.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

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