Spettatori attenti delle proprie vite

Katie Kitamura, Una separazione, Bollati Boringhieri 2017 (pp. 187, euro 14)

Dag Solstad, Romanzo 11, libro 18, Iperborea 2017 (pp. 189, euro 16,50)

Sia la protagonista del romanzo dell’americana Kitamura che quello del norvegese Solstad attraversano la vita non cessando mai di cercarvi un senso: analizzano se stessi e i loro giorni senza moralismi e senza rimpianti, ma le scelte che fanno risultano ambigue, o opache addirittura, ai loro stessi occhi.

“La gente è capace di vivere in uno stato di perenne delusione, molti non sposano la persona che speravano di sposare, e ancor meno vivono la vita che speravano di vivere, altri inventano nuovi sogni per rimpiazzare i vecchi, trovando altri motivi di insoddisfazione”, constata Kitamura.

Lui se n’è andato in Grecia, a far ricerche sulle prèfiche, le donne che piangono ai funerali dietro compenso, perché sta completando un libro sul lutto. Affascinato da chi ha subito un perdita: anche se il dolore si direbbe non l’abbia mai sfiorato sembra uno che ha perduto tutto, e non fa che scappare: da una donna all’altra, nascondendo il suo vuoto dietro la sua capacità seduttiva.
Avevano già deciso di separarsi, ma senza dire a nessuno del divorzio ormai prossimo, neanche ai genitori di lui. E’ di fronte a questi che lei, ex moglie nei fatti, sente di dover continuare a recitare il ruolo della moglie, e dunque raggiunge il marito. Il quale però è scomparso dall’albergo in cui era, senza lasciar traccia, almeno fino a che scomparirà una seconda volta e di lui, vittima di un’aggressione il cui autore resterà ignoto, non si ritroverà che il cadavere.
Arrivata in Grecia per chiedere al marito di non rimandare il divorzio, lei si ritrova così vedova. La morte sembra averla in qualche modo legata nuovamente al marito o, meglio, all’ex marito, e il dolore di una moglie non sembra alla fine tanto diverso da quello di una ex, perché a contare non sono le ferite che con evidenza gli avvenimenti infliggono, ma quelle che “non sai di avere, e il cui decorso non puoi prevedere”.
Nulla sfugge a un’ambiguità pervasiva, che sembra contagiare anche le dimensioni del tempo, del rapporto fra un passato “sottoposto a ogni tipo di revisione”, e che dunque si rivela   “un campo poco stabile”, “un terreno cedevole”, e un futuro che di conseguenza sarà “diverso da quello che abbiamo programmato”.
Nel confronto stridente fra questa indeterminatezza che segna scelte e sentimenti, e una scrittura tesa invece a registrare con precisione analitica ogni sfumatura delle percezioni, ogni particolare dei gesti, ogni ambivalenza dei pensieri si può riconoscere la cifra di questo romanzo, che non fa che riflettere un’epoca come la nostra, “dove la gente non fa che scattarsi foto in ogni momento” e “l’effetto non è quello di una rinnovata spontaneità o verosimiglianza delle foto che proliferano sui telefonini, sui computer, su internet, ma piuttosto il contrario: è l’artificio della foto a essersi introdotto nella nostra vita quotidiana.” 

Meno evidente e dichiarata è l’opacità delle scelte che si compiono e segnano la vita nella vicenda del protagonista del romanzo norvegese, funzionario ministeriale in carriera che tuttavia “nel più profondo di sé (sa) che la felicità passeggera (è) il bene più desiderabile a questo mondo”. E dunque lascia moglie e figlio di due anni, lavoro e città  per poter convivere, in un centro di provincia, con l’amante. Donna che l’ha affascinato con la sua grazia e la sua esuberanza, ma anche con il suo fascino seduttivo: qualità che nel giro di meno di vent’anni fatalmente si appannano al punto da non permettere, all’innamorato di un tempo, di ricordare le ragioni della sua passione.
Una separazione anche in questa storia, perciò, che conosce tuttavia uno sviluppo inatteso: il figlio di lui, ormai ventenne, si trasferisce nella città del padre, che lo accoglie animato dalla speranza di poter riannodare un rapporto che lui stesso aveva spezzato. Senza per altro essersene mai pentito: cercare significati nella vita non vuol dire, per quest’uomo, esprimere giudizi sul percorso che si è scelto di fare. Ciò che è accaduto doveva accadere: non è fatalismo a ispirare una simile posizione, quanto una sotterranea percezione della casualità e dell’interscambiabilità degli accadimenti, e delle stesse proprie scelte.
Il figlio si rivelerà un estraneo, molto diverso dal padre: convintamente calato nelle “modernità” il primo, entusiasta del mondo com’è, quanto inconsapevolmente portato a rintracciarvi vie traverse il secondo. Per altro alieno dal considerare il figlio un illuso: non ha certezze il protagonista di questa storia, o quanto meno è lontanissimo dal ricavarne norme di condotta.

Una cosa però la vuole decidere lui, sia pure con la complicità di un paio di medici: fingere un grave incidente e la conseguente paralisi che lo costringerà per il resto della vita a stare su un sedia a rotelle. Approdo assurdo di una vita che si sente di non aver potuto vivere all’insegna dell’autenticità, non tanto per le scelte fatte ma perché un’ineliminabile alienazione, oggi, cova nelle vite. Non esami di coscienza, pentimenti per gli errori commessi o rimpianti per le proprie rinunce possono allora esserne lo sbocco, ma solo una protesta radicale e silenziosa, segreta e incomunicabile. Una scomparsa dal mondo degli altri che non implica né la sparizione né la morte.

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