Vivere la propria vita, morire la propria morte

Oliver Sacks, Gratitudine, Adelphi 2016 (pp. 57, euro 9)

“Tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine”: pur facendosi evidenti i segni del declino, l’avvicinarsi della morte non è detto debba risolversi in malinconia, o peggio.

Perché quello che si sperimenta “non è una riduzione ma un ampliamento della vita mentale e della prospettiva”, una maggiore “consapevolezza della transitorietà e, forse, della bellezza”. Chi scrive non è uno dei tanti propagandisti dell’ottimismo a oltranza che inneggiano ai “vantaggi” della vecchiaia , ma un grande psichiatra, che per tutta la vita si è confrontato con la malattia e la sofferenza, e dunque quel che dice ha il sapore di constatazioni, semplici, aliene da qualsiasi volontà di persuasione: “Percepisco, chiare e improvvise, concentrazione e prospettiva. Non vi è tempo per nulla di inessenziale”. La vecchiaia è sì “un periodo di libertà e senza impegni, svincolato dalle artificiose urgenze del passato”, ma si rivela anche una dimensione in cui l’aver molto tempo coincide con il non aver tempo da perdere. E dunque – confessa senza reticenze Sacks – non farò più attenzione alla politica e al riscaldamento globale. Non è indifferenza, è distacco (…) mi interessano ancora profondamente, ma non mi riguardano; appartengono al futuro”. Il presente è altro, per chi ha superato gli ottant’anni – irrimediabilmente malato, oltretutto, come l’autore – ed è fatto di un sentimento di gratitudine per aver vissuto la propria vita , ora che è vicino il momento di “morire la propria morte”. Senza che questo comporti comunque un ascetico ritiro dal mondo: “Al contrario, mi sento intensamente vivo, e nel tempo che mi resta ho la volontà, e la speranza, di approfondire le mie amicizie, dire addio a coloro che amo, scrivere ancora, viaggiare se ne avrò la forza (…) ci sarà tempo anche per un po’ di svago (e perfino per qualche stupidaggine)”.

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