Il nostro classico del Novecento

Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Vita e pensiero 2016, pp. 120, euro 13

Nello scrittore che ci ha spiegato “perché leggere i classici” si può riconoscere, secondo Ossola, “il nostro classico del Novecento”, innanzitutto per la sua capacità “di collocare l’invenzione letteraria come scena ove il meditare filosofico e l’impegno etico trovano le loro più ‘giuste’ parabole.”

Il grande scrittore e il grande moraliste non si possono distinguere in tutto il tragitto di Italo Calvino, in “quella lunga dialettica fra ‘militanza’ e fantastico’” di fronte alla quale suonano quantomeno semplificatorie le interpretazioni che in passato han voluto fare dello scrittore un impolitico: “Credo molto nell’individuo – scrive in una lettera del ’57 – proprio perché mi preoccupo della storia collettiva.” Quelli che sa indicare sono piuttosto “itinerari spirituali compiuti al di fuori di tutte le religioni” – anche di quelle dell’impegno – e dentro la scrittura. Una scrittura che non dimentica mai “la continua scontentezza che ci si porta dietro nello scrivere” e non cessa di aver di mira “la trasparenza delle frasi”, interpretabile non come semplice qualità stilistica ma come rappresentazione della “nobiltà naturale” insita “nell’accettare il male e il bene della vita”, nell’aspettare, pazienti e vigili – come lo scrutatore alla fine della sua giornata al Cottolengo – “l’attimo in cui in ogni città c’è la Città”; nell’ammettere che l’inferno, “se ce n’è uno, è quello che è già qui”, non rinunciando tuttavia per questo a “cercare e saper riconoscere – come il Polo delle Città invisibili – chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Nessuna tentazione di rifugiarsi in uno sguardo distante e astratto, quindi, perché “l’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo d’un’epoca”, e “anche l’‘irrilevante’ delle nostre vite quotidiane prende senso e ragione” se lo si osserva con rigore.
Il “rigore del limite, in primo luogo, “la prima esattezza che dobbiamo darci”: sono pensieri, questi, che non hanno avuto il tempo di organizzarsi compiutamente nel testo di quella che sarebbe stata la sesta delle Lezioni americane.

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