Libertà di partire, diritto di restare

Valerio Calzolaio, Telmo Pievani, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, Einaudi 2016, pp. 133, euro 12

Non sono un evento eccezionale le migrazioni di oggi, né un fatto momentaneo o un’emergenza: “il tempo profondo dell’evoluzione insegna il contrario. Il fenomeno migratorio umano è strutturale e costitutivo della nostra identità di specie”.

Ci siamo “adattati migrando pur non diventando – come altre – una specie migratoria” e la nostra superiorità, ben prima che dalla crescita dell’encefalo, è venuta dai piedi: dall’andatura bipede, che ci favorì nei lunghi spostamenti, la fuoriuscita dall’Africa innanzitutto. Ma non immaginiamoci carovane infinite, esodi di massa, file interminabili che avanzano verso una meta ben identificata per quanto lontana: le grandi ondate migratorie che portarono al popolamento del pianeta furono piuttosto “una lenta avanzata, di generazione in generazione, di gruppi parentali o più ampi, fra 25 e 150 individui”, “con scarso grado di scelta sul come, quando, verso dove e perché”.
Quel che è certo è che il Mediterraneo rappresenta il “crocevia migratorio intercontinentale umano più antico” e che data dal neolitico, dall’affermarsi dell’agricoltura stanziale che induce a tracciare confini artificiali, il sommarsi ai fattori ambientali delle migrazioni – la ricerca di habitat più favorevoli – di un altro fattore decisivo: le guerre. Uccidere, scacciare, ridurre in schiavitù anziché andarsene. È da allora che prende avvio “una dialettica durevole fra costrizioni a migrare e libertà di migrare”.
In questa dialettica si inscrive la “libertà giuridica di migrazione per tutti” esistente nel mondo attuale, “libertà di partire” ma anche “diritto di restare”, libertà pesantemente condizionate da una congerie di fattori, economici, politici, ambientali, fra i quali emerge sempre più quello climatico: non è una novità storica, ma è un fatto che oggi, mentre assistiamo al “più grande e doloroso esodo internazionale di profughi dalla seconda guerra mondiale”, dobbiamo prender atto che i mutamenti climatici ne sono un fattore decisivo e, quel che più conta, sempre più lo saranno: “nel 2030 la certezza di essere rifugiati climatici o la probabilità di diventare tali riguarderà almeno 250 milioni di donne e uomini”. Molti di quanti sono morti nel Mediterraneo fuggivano da cambiamenti del clima che ha reso invivibili le loro terre. E non hanno riconoscimento in quanto rifugiati climatici. È di essi che il negoziato sul clima si deve occupare, con “lungimiranza”: per “evitare disatri e prevenire la fuga, organizzare lo spostamento e valutare se e quanto sia irreversibile, maturare la ri-localizzazione insieme ai soggetti a rischio e alle loro aspettative sociali, lavorative, familiari. Culturali”.

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