La paura della morte che avvelena la vita

Gustavo Zagrebelsky, Qohelet. La domanda, il Mulino 2021 (pp. 162, euro 14)

“V’è tempo di nascere, e tempo di morire”, “di piangere e di ridere”: chi non ha sentito, o detto, in occasioni e contesti diversi, massime simili, magari dimentico della loro fonte? Il Qohelet – o Ecclesiaste, in quanto immaginato dal suo ignoto autore, fra il III e il II secolo a. C., come un seguito di proposizioni da proporre a un’assemblea di uditori – è una miniera di citazioni, assemblate senza un ordine preciso, a volte contraddittorie, ma collegate da un concetto preciso: tutto è vanità, comprese la vita e la morte, compresa la meditazione che su di esse si può fare. E questo proprio perché la morte azzera ogni significato, ogni scopo.

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Tutti narcisisti, ma non allo stesso modo

Vittorio Lingiardi, Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi 2021 (pp. 124, euro 12)

È un narcisista, si dice di una persona le cui qualità appaiono limitate da un tratto inaggirabile, da un vizio che ne mina le potenzialità, senza badare al fatto che “Il meccanismo auto-erotico allogasi, qual più qual meno, in tutte le anime”. Così Carlo Emilio Gadda, citato in esergo da Lingiardi che ne conferma la tesi: “Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità”. Ecco il punto: c’è l’amor proprio e c’è l’amor di sé, diceva Rousseau – uno che di narcisismo se ne intendeva –, si tratta di considerarne le rispettive proporzioni. “Funambolo dell’autostima, Narciso cammina su una corda tesa fra un sano amor proprio e la sua patologica celebrazione”. Ma dove, come e perché, finisce la salute e inizia la patologia?

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Dalle nuvole degli scrittori alle nubi degli scienziati

Vincenzo Levizzani, Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore 2021 (pp. 276, euro 22)

“Ora sia il tuo passo / più cauto: a un tiro di sasso / di qui ti si prepara / una più rara scena / (…) Sopra il tetto s’affaccia una nuvola grandiosa”, scriveva Montale, e “nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…”, notava Calvino.

Nuvole, dicono i poeti, gli scrittori; nubi, invece gli scienziati. Gli inglesi hanno un solo termine, cloud (che tra l’altro, nel web, ha conosciuto fortune recenti); gli italiani due, e nuvole, non c’è che dire, è il termine preferito dalla lingua quotidiana come da quella degli artisti, anche dei pittori, dalle nuvole stilizzate di Giotto, “asservite a un discorso teologico” a quelle enigmaticamente minacciose della Tempesta di Giorgione, senza dimenticare i “nuvoli” di cui parla Leonardo, “creati da umidità infusa per l’aria, la quale si congrega mediante il freddo che con diversi venti è trasportato per l’aria”: definizione scientifica, ma ancora ricca di suggestioni poetiche. Le quali cederanno il passo alla logica scientifica con Cartesio, che si proponeva di “spiegare la natura delle nubi in tal modo che non rimanga più nessun motivo di stupore”. Una scelta decisa, una perdita forse: “In principio tutto era vivo”, scrive Paul Auster: “Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome”. Ma un nome ce l’hanno ancora, le nuvole, anche se non serve a nominarle incantati, ma a classificarle, secondo i principi della “fenologia”, la scienza delle nubi: i termini attuali echeggiano quelli ideati a inizio Ottocento da un inglese, Luke Howard, e impiegati anche da Goethe nel suo saggio La forma delle nuvole.

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La scrittura, l’oblio, la morte

Björn Larsson, Nel nome del figlio, Iperborea 2021 (pp. 211, euro 16,50)

“Ogni vita umana ha il diritto di essere ricordata e raccontata, ma non tutte si prestano a essere trasformate in letteratura, non tutte meritano di diventare modelli a cui attenersi o da cui scostarsi, a meno che l’autore non aggiunga o sottragga, non si serva della fantasia per raccontare una storia personale capace di convincere e coinvolgere il lettore. In fondo è raro che una vita reale abbia le caratteristiche estetiche ed esistenziali per diventare un buon libro”. Abbiamo di recente letto qualcosa di molto simile: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, diceva Paola Baratto (Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021, ne abbiamo parlato qui): sta a chi raccoglie quei racconti, quei ricordi, leggerci ciò che contengono ma non dicono, ciò che solo la sensibilità dello scrittore può intravedervi.

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Raccontare i luoghi, raccontare il dolore

Germana Urbani, Chi se non noi, Nottetempo 2021 (pp. 209, euro 14)

Lui, lei, l’altra, l’amore e il disamore: sarebbe una storia come tante se non intervenissero due componenti decisive.

L’ambiente in cui la vicenda si svolge, innanzitutto, il paesaggio che ne è parte sostanziale: gli orizzonti sconfinati di terra e di acqua del Delta del Po, come nei film di Mazzacurati e nelle fotografie di Luigi Ghirri, come nel Celati di Verso la foce, nel Malguti di Se l’acqua ride (ne abbiamo parlato qui), nel Belpoliti di Pianura (ne abbiamo parlato qui) . Luoghi che segnano l’identità e il destino dei loro abitanti, fatti di “un impasto di terra e di acqua”, di un “fango che anche fuggendo lontano ti rimane addosso; luoghi che la scrittura di Urbani sa restituire in contrappunto alla narrazione dei fatti (“Con lo sguardo cerco sull’argine di fronte a me un filare composto di pioppi altissimi che, a intervalli perfetti, rompono la monotonia dell’orizzonte. Si alzano maestosi da queste terre piatte come monaci in processione, custodi mistici del silenzio naturale delle cose”).

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Una regione ignota e favolosa

Roberto Calasso, Memè Scianca, Adelphi 2021 (pp. 96, euro 12)

La scomparsa dell’autore, contemporanea all’uscita del suo libro, ne complica la lettura, soprattutto quando si tratta di uno scritto autobiografico: la tentazione di scorgere segni premonitori del carattere e dell’opera del protagonista nelle sue reazioni ai fatti vissuti e nelle sue prime esperienze è incoraggiata dalla certezza che nessuna ulteriore notizia da parte di chi ha scritto, nessuna possibile messa a punto di quanto riferito potrà modificare ciò che leggiamo. Anche perché la fase della vita che si è inteso raccontare era, in questo caso, già circoscritta da una constatazione definitiva: “Una lastra impenetrabile e trasparente separa ciò che ho vissuto a Firenze sino alla fine del 1954 da tutto il resto. Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi”. E ha dunque semmai lasciato tracce e seminato risonanze in altri generi di scritti. Quei primi dodici tredici anni di vita, invece, hanno tardivamente chiesto di essere evocati passando di ricordo in ricordo in ragione della significatività dei  ricordi stessi, del loro carattere in qualche modo iniziatico, il quale, in fondo, ne spiega la persistenza: un “glicine fiorito è il primo colore” che si offre alla pura contemplazione – “Lo guardavo soltanto” – ; una barriera fitta di alberi oltre il confine del giardino in cui si trova è “la prima apparizione dell’āraņya vedico, la foresta dei saperi segreti”; la predilezione per il sentir raccontare storie si manifesta inequivocabilmente di fronte alle rappresentazioni di un burattinaio; il fascino ineguagliabile che può ispirare la figura dello scrittore si fa esperienza nel racconto di un amico conquistato dalla lettura di Proust, che rappresenterà una precoce indimenticabile esperienza anche per un Calasso tredicenne.

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Il giornalismo filosofico di Foucault

Michel Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti 1820, 2021 (pp. 264, euro 22)

Mentre non mancano ragioni per un Ritorno a Jean-Paul Sartre, come recita il titolo di un recente libro di Massimo Recalcati (ne parliamo qui), altrettanto convincenti sono le iniziative volte a richiamare l’attenzione su colui che gli fu successore, come alcuni sostengono, quale intellettuale engagée: dalla ripubblicazione di Io, Pierre Rivière (ne parliamo qui) un paio d’anni fa a quella recente della biografia di Michel Foucault, il filosofo del secolo, secondo Didier Eribon (Feltrinelli 2021), dall’uscita di Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, che riunisce alcune sue conferenze del 1974 (Donzelli 2021) alle riprese del suo pensiero che la pandemia e le misure adottate hanno stimolato, con Agamben e Zagrebelsky, e altre accese polemiche (fra tutte quella tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di “Micromega”, e il filosofo Roberto Esposito, nel volume 8 del 2020).

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Finché puoi, continui a non morire

Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi 2021, (pp. 312, euro 20)

“Fra il mio progetto iniziale di un libricino arguto e accattivante sullo yoga e il libro che (…) ho cominciato a mettere insieme (…) sono successe molte cose imprevedibili, alcune atroci”. “ Ora sono passati sei mesi e il libro è finito”.

Che cos’è successo in questi sei mesi? Un corso di yoga e il proposito di scriverne, appunto, ma poi un’interruzione inaspettata, drammatica: l’attentato a Charlie Hebdo, e, ancor più drammatica, la caduta in uno stato mentale che richiede il ricovero e trattamenti drastici; ma ne esce, l’autore-personaggio: un soggiorno a Leros, isola asilo di rifugiati, e siamo all’epilogo: “Finché puoi, continui a non morire. Continui a non morire, ma non ci metti nessun entusiasmo. Non ci credi più. Sei convinto di non avere più niente da giocarti, e che non succederà più niente. Invece un giorno succede qualcosa. L’ignoto, desiderato e temuto, assume le fattezze di un’ignota particolare”. Happy end di una trama irraccontabile: l’autofiction pare essersi qui risolta – quanto ai fatti almeno – in autobiografia, ma l’ultimo romanzo di Carrère non si propone di dare una trama alla vita, di racchiuderla in un prima, un durante e una fine – come fanno o si continua nonostante tutto a credere debbano fare i romanzi. Ciò che ci offre è piuttosto un brano – o, meglio, alcuni brani in successione – di esistenza: un romanzo in scala uno a uno con la vita, ma solo a tratti, non alla maniera di Knausgård però (La mia battaglia, Feltrinelli 2014-2017). Nessun desiderio di dire tutto quel che è accaduto, giorno per giorno, momento per momento, ma di scrivere quel che ha contato in quel cammino di miglioramento di sé – dettato dalla “voglia di condurre una vita più coerente, unificata, meno inquieta” – ”, che il protagonista identifica come un proprio tratto caratterizzante anche se continuamente contraddetto dall’altro polo della sua personalità: “il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo”. La meditazione: sono una quindicina le definizioni che di essa via via se ne danno, fino a giungere, verso la fine, non a una sintesi, ma solo a un elenco. È in ogni caso per imparare a praticarla che si fa yoga, e si fa yoga – lo si ribadisce più volte – per sconfiggere la prevalenza dell’ego. Senza grandi risultati, comunque: la meditazione dovrebbe metterci “al corrente dell’esistenza altrui (…) Se non lo fa, se resta una faccenda fra noi e noi, allora non serve a niente: l’ennesimo giochino narcisistico”, che è quello che il protagonista – ossia Emmanuel – ha paura che la meditazione sia, almeno per lui.

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“Questo libro che crede di essere un romanzo”

Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Mondadori 2021 (pp. 288, euro 18,50)

“Sanguina ancora”: che cosa? La ferita aperta da un libro, Delitto e castigo, “quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza”. E perché, sanguina? Perché, “in un certo senso” a lui, l’autore, piace sanguinare: “nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono salo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono ‘Come stai?’ (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere ‘Benissimo!’ col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli”. Eccolo qui, Nori. Il Nori che conosciamo meglio, quello delle Parole senza le cose (Laterza 2016) e di Undici treni (Marcos y Marcos 2017), ne parliamo qui. Ma, in questo libro, a scrivere è soprattutto il Nori studioso di letteratura russa, lo stesso che un paio danni fa ha proposto un “viaggio sentimentale” con La grande Russia portatile (Utet 2019) e l’anno prima, offrendoci un “corso sintetico di letteratura russa”, ci ha informato che I russi sono matti (Salani 2018). Il professor Nori dunque, che però non rinuncia al suo periodare svagato: “Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o Ricordi del sottosuolo, o Appunti dal sottosuolo, anche questa storia dei titoli, un volta ho visto un romanzo di Dostoevskij che si intitolava Gli indemoniati, ‘Vacca’ ho pensato, ‘un inedito’, invece era I demòni che gli avevan cambiato titolo”.

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Una lezione di metodo

Gianni Sofri, L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-45, il Mulino 2021 (pp. 142, euro 12)

Suo allievo negli anni Cinquanta alla Normale di Pisa, Gianni Sofri scrive più di sessant’anni dopo di Arsenio Frugoni – bresciano d’adozione, medievalista, autore di Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XIII. Perché? Perché imparò da lui qualcosa di essenziale, un’“idea di ricerca” segnata dal “suo gusto del suggerire anziché dell’esplicitare”, dal suo invito continuo a leggere finemente nelle righe e fra le righe. E ancora, dal suo amore per la complessità”. Tutte qualità che possono essere attribuite alla ricerca di Sofri su quei dieci mesi nei quali Frugoni fece il pendolare – in bicicletta, più di 120 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno – fra Solto Collina, sul lago d’Iseo, dove stava la famiglia, Brescia e Gargnano, il paese gardesano in cui risiedeva Mussolini (circostanza che, fra altri, ha documentatamente ricostruito  il gargnanese Bruno Festa, giornalista e storico, in Polvere nera. I 600 giorni di Mussolini a Gargnano). Il fatto è – e qui sta una seconda motivazione della ricerca – non si conoscono con certezza le ragioni per cui il ventinovenne storico andasse là. Se non quelle ufficiali: padrone della lingua tedesca dopo un periodo di studio a Heidelberg e un soggiorno di lavoro a Vienna, trova impiego come insegnante di italiano e interprete presso l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wermacht e la Repubblica sociale.

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Un ricercatore libero, un po’ anarchico

Philippe Ariès, Interrogare la storia. Pagine ritrovate, Marietti 1820, 2021 (pp. 110, euro 9)

Nel 1968 abbiamo potuto leggere Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, dieci anni dopo Storia della morte in Occidente: Ariès è stato una delle voci emblematiche della “nuova storia”, il pioniere della storia delle mentalità che ci ha spiegato come ciò che sembra attraversare indenne i secoli non è in realtà sempre stato come lo conosciamo. Né il modo di rapportarsi ai bambini né quello di concepire la morte. Senonché, ci spiega Gabriella Airaldi nella sua introduzione, Ariès fu uno storico “molto lontano dal mondo delle “Annales”: “un ricercatore libero, un po’ anarchico, come ogni ricercatore dovrebbe essere”, per usare le sue stesse parole; oltre tutto conservatore per tradizione familiare e convinzione personale. Ma attenzione: tradizionalista perché non disposto “ad accordare i valori e le norme di un modo di vita allo sviluppo delle razionalità tecniche” (è Foucault in questo caso a parlare, in uno degli interventi contenuti in un altro recente libro della stessa Marietti 1820 che raccoglie scritti del pensatore francese, Discipline, poteri, verità), capace quindi di vedere quanta parte nei discorsi del Sessantotto avessero “i miti e le immagini del mondo perduto dei nostri antenati”, quale ruolo giocassero temi “passati dall’estrema destra reazionaria e ancora un po’ tradizionalista a una estrema sinistra nuova”.

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Un atlante per gli umani del primo Antropocene

Telmo Pievani, Mauro Varotto, Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro, Aboca 2021 (pp. 189, euro 22)

Prima del testo sono le carte geografiche, a partire da quella in copertina, a impressionare. Ognuno, immagino, guarda ai luoghi in cui vive: Brescia non la si trova, non è segnata nella carta. Ma il disappunto si trasforma in consolazione appena ci si rende conto che il suo nome non appare come quello di altre città che ancora si trovano sulla terra ferma. A differenza, per rimanere dalle nostre parti, di Cremona e Mantova, i cui nomi spiccano sull’azzurro del mare che ha invaso la Pianura padana; Verona è lì lì: una città della costa… A quale era geologica risale la situazione così rappresentata, viene da chiedersi, se non si è ancora letto il sottotitolo: la geografia di quest’Italia inondata al nord e frastagliate di golfi e fiordi per il resto delle sue coste non è quella di un passato lontano, ma di un futuro abbastanza vicino (se si ragiona su scala geologica). Mille anni. Il 2786. Mille anni dopo che Goethe aveva iniziato il suo Viaggio in Italia. È vero che si tratta di una geografia “visionaria”, ma lo scenario, ci avvertono gli autori, è “utile per riflettere sul fatto che l’assetto ereditato del nostro territorio non è affatto scontato, e che è oggi nostra la responsabilità di orientarlo in una direzione o nell’altra”. Si tratta di vedere “se la nostra azione rimarrà sorda ai moniti di studiosi, scienziati e organizzazioni internazionali, al loro invito a invertire la rotta, riflettendo sulle ricadute climatiche e ambientali del nostro attuale modello di sviluppo e di vita”.

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Il rischio di vivere

Muriel Barbery, Una rosa sola, e/o 2021 (pp. 176, euro 16,50)

Occorre superare il disagio che si può avvertire all’inizio: la lingua ricercata, densa di metafore arrischiate che sembrano voler echeggiare le sensazioni cangianti e sottili – i profumi, i colori dei fiori innanzitutto – che prova la protagonista, le atmosfere sospese in cui viene a trovarsi, i dettagli dal significato sfuggente concorrono a raccontare un’esperienza che si direbbe oscillare fra l’inedito e l’ineffabile. E i brani dal sapore sapienziale che si alternano ai capitoli accentuano questo ambiente narrativo che può creare perplessità. Ma è Rosa, francese di padre giapponese, a confrontarsi con il Giappone, con la casa di Kyoto in cui il genitore era vissuto e che ora lei ha raggiunto per assistere alla lettura del testamento: stupore e disorientamento, cambiamenti repentini di stati d’animo, una ricorrente quanto inspiegabile impressione di far ritorno in questi luoghi che non aveva mai visto, culminano nella scoperta che il padre,  agiato mercante d’arte ed esteta raffinato, da sempre assente dalla sua vita, aveva in realtà seguito da lontano ma con amore la sua vita, fin dall’infanzia e ora che non c’è più l’ha affidata Paul,  suo esecutore testamentario, che le farà da accompagnatore, colto e sensibile quanto discreto, nelle visite a templi che poco a poco rivelano alla trentacinquenne europea i tratti di una cultura altra.

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Le ragioni dei vecchi

Ancora su Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza di Francesco Stoppa (Feltrinelli 2021): uno scambio con l’autore dopo l’incontro a Brescia dello scorso 11 giugno, al Bistrò Popolare

Gentile professore,

Le età del desiderio – come credo risulti evidente dalla nota di lettura che gli ho dedicato – mi ha rimandato ad altri libri per me significativi nel lavoro di elaborazione della condizione del tutto prevedibile ma per molti versi inimmaginabile che è l’invecchiare. Fase conclusiva della “personalizzazione”, stando al Sartre rivisitato da Recalcati (ne abbiamo parlato qui), impegnativa e ineludibile, a meno che ci si voglia adeguare alla figura del’anziano così come viene proposta (o imposta), assumendola su di sé come nelle età precedenti si erano indossate le maschere corrispondenti a ruoli e collocazioni sociali; occasione di una “seconda vita” – come recita il titolo di Jullien (ne abbiamo parlato qui) –, se si sa far propria la possibilità di sottrarsi a quel bisogno che ha avuto un ruolo portante nella prima vita: il bisogno di riconoscimento, anche nell’amore, il bisogno di “imporsi al mondo e stabilirvi il proprio posto”. È soprattutto questa, la prospettiva di Jullien, ad essermi risultata convincente nel lavoro di elaborazione cui accennavo, e mi è parso di poterla ritrovare nel suo libro. Anche se da un punto di vista diverso: Jullien lascia intendere che di quel bisogno di riconoscimento ci si possa sbarazzare, che degli altri, nella sostanza, si  possa (finalmente) fare a meno; illusione che invece non mi pare trasparire dal suo discorso: l’“arte di tramontare” somiglia alla “riforma” della propria esistenza di Jullien, ma è un’arte –  un’“opera”, come ha efficacemente sottolineato nella conversazione a Brescia – che si esercita in relazione agli altri, sotto lo sguardo degli altri (anche, o soprattutto, aggiungerei, degli altri che sono in noi, che siamo noi).

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Un narcisista di pelle sottile

George Simenon, La mano, Adelphi 2021 (pp. 172, euro 18)

C’è il morto, non un assassino. Eppure si legge fino alla fine con il fiato sospeso.

Donald vive una vita di cui si sente prigioniero, ma non è ribellione la sua, è solo scontentezza, una scontentezza di sé che viene da lontano. Non è innamorato di Mona, la moglie dell’amico. Non è innamorato di nessuna donna. Si accontenta di Isabel, la moglie. Remissiva, ma giudicante: “mi era capitato di essere sgarbato, ingiusto, ridicolo o che so io, con lei o con le nostre figlie. Neanche una parola. Il suo sorriso era indelebile”, “quel suo terribile sorriso che perdona o che…”: sposato da anni, lui non la sa decifrare, lei gli sa leggere dentro. Non le sfugge l’indifferenza e insieme l’invidia che lo trattengono dal soccorrere l’amico che si è perso in una tempesta di neve, a pochi passa dalla loro casa.

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Le due solitudini

Aurelio Musi, Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network, Neri Pozza 2021 (pp.172, euro 17)

Non giova quel sottotitolo che fa pensare a uno dei soliti libri compilativi capaci, almeno nelle promesse, di offrirti sintesi fulminanti di temi strappati a trattati prolissi e difficili. Perché la storia che qui ci viene raccontata, colta e insieme piacevole alla lettura, opera delle scelte precise, individua criteri efficaci e trasparenti nel ricondurre le forme della solitudine a pochi essenziali modelli che offrono “una lente attraverso la quale rileggere la storia culturale dell’Occidente a partire dalle sue radici nell’antichità classica”. L’ambivalenza della solitudine, innanzitutto. Come di ogni sentimento umano, del resto, faceva notare il più grande storico dei sentimenti e delle mentalità, Lucien Febvre, secondo il quale “una specie di comunità fondamentale unisce sempre i poli opposti dei nostri stati affettivi”, per cui è possibile distinguere una solitudine buona da una cattiva, la solitudine “depressiva” da quella “evolutiva”, la loneliness dalla solitariness (com’è noto gli inglesi hanno in proposito due termini distinti), continuando tuttavia a riconoscere una continuità profonda fra i due modi di vivere una condizione che tutti – in misura e secondo modi diversi – conosciamo per esperienza.

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La conversione di un uomo di scienza nell’Islanda disperata di fine ’700

Bergsveinn Birgisson, La fonte della vita, Iperborea 2021 (pp. 317, euro 18)

I luoghi, e le atmosfere, li conosciamo già: si tratta delle lande desolate che ci ha fatta conoscere Jón Kalman Stefànsson nella sua trilogia (ne parliamo qui), di quel “paese inospitale” “agli estremi confini del mondo”, di quella “grande isola solitaria” che è l’Islanda. I tempi in cui si svolge la storia che ci racconta Birgisson sono diversi però: non la fine dell’Ottocento, ma quella del secolo precedente, e la situazione è ancor più disperata. Eruzioni vulcaniche in continuazione che sciolgono nevi e spaccano ghiacciai, vomitando ovunque piogge di cenere che bruciano le piante, uccidono gli animali, affamano gli umani. Già la lettura di Stefànsson aveva evocato il Leopardi del Dialogo della Natura con un Islandese; qui il riferimento è esplicito: “La natura afferma che non le importerebbe di annientare l’intero genere umano, nemmeno se ne accorgerebbe (…). E con ciò pare che si principi a cancellare dai cieli il buon Padre che finora si era interessato ai nostri travagli”. Un’ironia lieve, e amara, percorre la narrazione e non è tanto la Natura il suo bersaglio, ma gli uomini. Uomini che osano infierire su una terra come quella in un periodo come quello: i Danesi. Padroni dell’isola, che dalla Reale camera delle Finanze di Copenhagen, il capo coperto da parrucche incipriate e pieni di pidocchi poggiate sui capelli spalmati di sego, non esitano a immaginare il rimedio finale per quegli accidiosi e superstiziosi islandesi: il trasferimento forzato di quanti fra loro si dimostrino abili al lavoro, idonei a passare dalla fame che soffrono allo sfruttamento della fabbriche che sul continente la rivoluzione industriale sta diffondendo. Corrotti e ipocriti, i politici della capitale si propongono di “salvare” circa ventimila persone, ma prima si premurano di organizzare una spedizione al fine di disporre di un rapporto dettagliato “sulle condizioni di vita delle comunità locali”, corredato di informazioni su quanto di “curioso” o “antico” sia rintracciabile in quella terra di streghe e barbari e di aggiornamenti delle carte geografiche spesso approssimative di cui all’epoca si dispone.

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Un’anestesia permanente che derealizza il mondo

Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi 2021 (pp. 85, euro 13)

“Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni”. Se corri dal medico ad ogni malessere stai barando con te stesso, se la medicalizzazione si fa prassi diffusa è la società che rivela una falla e dunque compensa facendoci vivere in “un’anestesia permanente” che “derealizza il mondo e fa apparire plausibile e ragionevole evitare “qualsiasi circostanza dolorosa. Perfino le pene d’amore sono diventate sospette”: un innamoramento che faccia soffrire va immediatamente rifiutato, così come il conflitto. Non solo nella vita privata, anche in politica, dove perciò prevalgono “il conformismo e la pressione al consenso”. Non c’è alternativa, dunque mettiti l’anima in pace, non soffrire per come vanno le cose. Non importa se intanto quella che teniamo in vita è sempre più “una democrazia palliativa”.

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Appartati, discreti maestri di vita

Paola Baratto, Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021 (pp. 80, euro 12)

Sono tornati, gli appartati, discreti maestri di vita che popolano i racconti di Paola Baratto: dopo il romanzo (Lascio che l’ombra, segnalato in questi Appunti il primo settembre 2019), Malgrado il vento riprende le storie raccolte nel 2014 in Giardini d’inverno e due anni dopo in Tra nevi ingenue. Un dato di continuità da subito evidente è la brevità dei racconti, un tratto che ne è sostanza, non rispondendo tanto a una scelta stilistica, quanto a un impegno preciso, quello di mirare all’essenziale e di questo dire, senza farsi distrarre, senza distrarre il lettore. Il succo della storia è già lì, sin dalle prima righe, e così il suo protagonista. Non ci viene chiesto di arrivarci attraverso trame complicate che mettono in campo schiere di personaggi. Ciascuna delle storie che ci vengono proposte potrebbe costituire il nocciolo di un racconto lungo, se non addirittura di un romanzo – anche perché, sia pure in pochi tratti, spesso si dà conto del passato in cui è maturata la fisionomia del personaggio –, ma una scelta del genere tradirebbe il senso che l’autrice sembra assegnare alla scrittura: dire ciò che davvero conta, appunto, senza confonderlo in un intrico di fatti e discorsi come a imitare la vita. La buona scrittura, la scrittura vera, quella che giustifica il lavoro dello scrivere e assicura il piacere del leggere, quella che dà senso ad entrambe le attività, opera una distillazione della vita, non ne persegue la mimesi. Ha bisogno della vita, la letteratura, se ne alimenta, ma è altro. Lo leggiamo nelle prime pagine, in una premessa – Le stagioni degli altri – che rappresenta di fatto la dichiarazione di una poetica: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, quegli stessi racconti che pure vale la pena di ascoltare, di saper ascoltare – “un’inclinazione”, questa, che risulta essere ormai “una mercanzia rara”. Come il saper narrare, del resto.

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L’imperativo genealogico

Elisabetta Abignente, Rami nel tempo. Memorie di famiglia e romanzo contemporaneo, Donzelli 2021

“Quel che possiamo fare per coloro che ci hanno preceduto è ricordarne i nomi e raccontarne le vite”. Ma non si tratta solo di loro. Quelli che scrivono della propria famiglia lo fanno “per capire sé stessi attraverso uno studio anatomico della cellula della società che li ha generati” – “nella consapevolezza che una personalità si forma in continuità e in opposizione a chi, sulla linea generativa la precede e la segue” – e insieme per “guardare alla storia collettiva di una comunità, di un paese, di un popolo”. Lontane dal ripiegamento intimistico, come dal narcisismo che si può annidare nella nostalgia, scrivendo “memorie di famiglia” autori fra loro diversi hanno messo al mondo romanzi intramontabili, componenti essenziali del nostro patrimonio culturale: da Lessico famigliare dei Natalia Ginzburg alla trilogia del Labirinto del mondo di Marguerite Yourcenar, dai Buddenbrook di Thomas Mann a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, da Gli anni di Annie Ernaux fino al recente, possiamo aggiungere, “ritratto di una famiglia esperta in autodistruzione” in cui consiste  – secondo la definizione dell’autore stesso –  Il libro delle case di Andrea Bajani (ne parliamo qui). Romanzi diversi, segnati da una mix a proporzione variabile fra testimonianza fedele e libera finzionalità, a seconda che la storia riguardi i tempo recenti della famiglia, facendo quindi della memoria personale dell’autore la fonte principale, o risalga invece nel tempo di diverse generazioni come avviene nelle saghe, in cui chi scrive si fa storico e persino archivista e nel contempo non può che lasciare spazio alla propria immaginazione letteraria.

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Per una parola “suscitatrice” di angoscia

Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021 (pp. 138, euro 12)

Dopo la lettura del pamphlet di Franzen e il suo invito a smetterla di fingere che sia possibile fermare la crisi climatica (ne parliamo qui), viene naturale assegnare un posto specifico a ogni lettura sull’argomento – su questo che non è un argomento fra gli altri – a seconda che ammetta ancora questa possibilità o la ritenga tramontata.

Il discorso di Benedetti pare ammetterla (“siamo ancora in tempo”, la “catastrofe terribile che si annuncia potrebbe ancora essere evitata se gli uomini mutassero il loro comportamento”), e tuttavia non suona affatto incline alla sottovalutazione del problema o a prospettarne una soluzione per via esclusivamente tecnologica. Un discorso connotato da una sua radicalità, nella sostanza: “non era mai successo prima d’ora che la violenza genocida si esercitasse sui viventi di domani. Questa è in assoluto la novità più disumana del nostro tempo, che rende ancor più atroce e intollerabile l’inerzia di oggi”. La nostra “capacità empatica” non sembra capace di “estendersi oltre i viventi di oggi, o non è abituata a farlo”. Forse perché “il nostro cervello (…) è programmato per reagire solo a minacce immediate, oppure legate ad azioni immorali” ma, appunto, non riusciamo a inquadrare facilmente nell’uno o nell’altro di questi campi le minacce ambientali. Le frequenti denunce, ricche di dati e al momento in cui le leggiamo impressionanti, non sedimentano un atteggiamento che duri e soprattutto si traduca in atti concreti.  È il credere ma continuare ad agire, a vivere, come non si credesse: è questo che avviene e l’abbiamo letto ormai più di una volta, ma neanche questa consapevolezza pare in grado di determinare conseguenze tangibili. Perché? Perché sono le strutture stesse del nostro modo di pensare a mantenerci in questa bolla di oggettiva indifferenza e, come leggiamo nell’esergo del libro, “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”. La frase, attribuita ad Einstein, è alla base di prese di posizione che vanno dal fisico Rovelli (secondo il quale occorre “ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo”) all’antropologo e filosofo Latour, che ci ricorda che “la terra è un pianeta vivente”, e dunque reagisce alle perturbazioni finché può, avendo, come ogni vivente, dei limiti. 

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