L’ecologia e il sentimento di esistere

Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B 2021 (pp. 204, euro 16)

“La complicata questione di come le società industriali possano aumentare la produzione di energia (…) è uno spreco di tempo se l’aumento dell’energia è inutile in relazione ai fini ultimi”. Che è come dire: discutiamo pure di come far fronte alla minaccia che le forniture di gas crollino, oppure della tassonomia europea delle fonti da ritenere compatibili con la lotta alla crisi climatica, ma la questione vera è che cosa se ne fa dell’energia stessa. L’”ecologia profonda” si riassume in prese di posizione come questa: se è tale davvero, il discorso ecologico non può non mettere in discussione l’assetto generale del sistema in cui, di cui viviamo, e, a monte, il pensiero che più o meno esplicitamente lo sostiene.

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Non basta dire Buddenbrook

Gabriele Tergit, Gli Effinger. Una saga berlinese, Einaudi 2022 (pp. 914, euro 24)

La storia della Germania dal 1878 al 1948, da Bismarck a Hitler, attraverso quella di una famiglia ebraica, o meglio, di due – oltre agli Effinger, i Goldschmidt-Opner –, le cui vicende si susseguono incrociandosi per oltre 900 pagine e non è certo il caso di ripercorrere in una breve nota. Quattro generazioni, un profluvio di personaggi opportunamente mappati nei due alberi genealogici che precedono il testo.
Inevitabilmente paragonato al primo grande romanzo di Thomas Mann (tanto da poter essere definito “i Buddenbrook ebraici”) per il suo contenuto e i temi trattati ma anche perché là dove termina il romanzo di Mann, nel 1877, inizia quello di Tergit, uscito cinquant’anni dopo, prodotto di un lavoro di scrittura e riscrittura durato un ventennio, trascorso in esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste.

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Vite vissute

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Rizzoli 2021 (pp. 240, euro 18)

Certo, sempre di libri si tratta, ma metterli a confronto non ne rivela tanto il contrasto quanto un’eterogeneità così pronunciata da farne oggetti fra loro estranei, imparagonabili perché appartenenti a universi differenti, solo per comodità, e pigrizia, definibili come il vecchio e il nuovo. Eppure, il romanzo di Piersanti è stato tra i finalisti dello Strega 2022 insieme ai romanzi di Veronica Raimo (Niente di vero) e di Mario Desiati (Spatriati), il vincitore.

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Ascoltare l’abbandono

Mario Ferraguti, La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, Ediciclo Editore 2016

“Le case si capisce subito che sono abbandonate quando sembrano finalmente stare bene con tutto quello che c’è intorno”, ma c’è voluto del tempo. Prima erano case disabitate, che non è la stessa cosa. Quelle disabitate sono tristi, “sembrano soltanto case vuote in attesa di un ritorno”.
Fatta questa distinzione fondamentale – di tempi, non di tipologie – e individuato l’Appennino come terra nella quale l’incontro con l’abbandono è, purtroppo, assicurato, si tratta di guardare a sé stessi, quello che accade quando si varca la porta, o quel che ne resta, di una casa abbandonata, attirati e intimiditi allo stesso tempo dal suo silenzio, dal “senso di soggezione di chi entra a disturbare”. Perché è vero che non c’è più nessuno, nessuna presenza umana, ma nella casa ci sono le cose, “piene degli sguardi di chi ci ha abitato”, ci è nato, ci è morto… Loro, le cose, sono lì, “ferme ad aspettare niente; perché è solo nostra l’attesa, è solo nostro il dividere il tempo, l’aspettarlo o il rimpiangerlo. Alle case e alle cose basta restare ferme, è solo nostra l’ansia del passare del tempo”.

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Genio e dissipazione

Giorgio Fontana, Il Mago di Riga, Sellerio 2022 (pp. 126, euro 13)

C’è chi gioca a scacchi e chi no. I secondi, di cui faccio parte, si accostano con una certa diffidenza al nuovo romanzo di Fontana (non sarà una lettura per scacchisti?). Ma Fontana è quello di Un solo paradiso (che abbiamo letto alla fine del 2016) e di Prima di noi (in queste note nel maggio del 2020), e dunque… E poi, c’è anche il fatto che non si contano i grandi uomini appassionati di scacchi. Lenin, per esempio: lo si vede, in quella fotografia famosa del 1908, che gioca – tranquillo, forse sta perfino sbadigliando – con il compagno Bogdanov sotto gli occhi dell’amico Gor’kij. Sì, però – sostiene qualcuno – ha poi smesso, a Zurigo: s’è accorto che gli scacchi lo prendevano troppo, rischiavano di distoglierlo dal suo lavoro di rivoluzionario professionale. Mah…

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Un poliziesco che intriga e diverte, ma non si conclude

Marco Denevi, Rosaura alle dieci, Sellerio 2022 (pp. 314, euro 10)

Camilo Canegato è un uomo comune, vicino alla mezza età, più restauratore di quadri che pittore, uno di quelli che ci si dimentica subito d’aver visto, e timido per giunta, patologicamente timido e introverso. Per un tipo del genere, il rapporto con gli altri ha sempre un che di traumatico, soprattutto se sono invadenti come la padrona della pensione presso la quale ha preso domicilio dopo la morte del padre. Doña Milagros è una di quelle persone che si sono convinte di conoscere il mondo, di sapere come vanno le cose, e perciò contano di capire fino in fondo ed essere legittimate a giudicare gli altri, ma non sono per questo appagate e autonome: degli altri hanno bisogno, come bestie affamate del cibo. E dunque, essendosi fatta un’idea di loro e dei loro problemi che non può che essere quella giusta, li perseguitano con i loro consigli, le loro critiche, i loro incoraggiamenti.

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Una donna pulita

Nita Prose, La cameriera, La nave di Teseo 2022 (pp. 447, euro 21)

“Dicono che è imbarazzante. Distaccata, meticolosa. Una maniaca della pulizia. Una tipa stramba. E peggio”. Sì, in effetti, Molly, cameriera ai piani del Regency Grand Hotel è fatta a modo suo, basta poco per rendersi conto che è diversa, ed è questa sua diversità che pagina dopo pagina impariamo a capire, tanto da farci provare una simpatia crescente per la protagonista, una sorta di versione femminile dell’indimenticabile Forrest Gump di Zemeckis. Ma quello che caratterizza Molly non è un ritardo mentale: l’autrice non lo rivela, ma al lettore basta mettere in fila gli atteggiamenti del personaggio per individuarvi i segni della cosiddetta sindrome di Asperger.

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Custodi del tempo

Valeria Parrella, La Fortuna, Feltrinelli 2022 (pp. 142, euro 16)

Ci sono romanzi storici che usurpano questa definizione: fatti di vicende, personaggi, idee di oggi, semplicemente trasposti nel passato, ridotto così a semplice scenario di un palcoscenico sul quale recitano attori che potrebbero vivere solo nel nostro tempo. Altri romanzi a buon diritto riconducibili al genere, invece, sanno evocare in modo suggestivo e insieme rigoroso ciò che non è più, senza tuttavia rinunciare a richiamare – più o meno esplicitamente ma rispondendo a un’intenzionalità evidente – il presente, spesso con finalità critiche, o satiriche, di presa distanza comunque dal nostro mondo, dalla nostra società.

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Donne alla ricerca della libertà

Paola Baratto, Una luce differente, Manni 2022 (pp. 96, euro 13)

«Alle donne impegnate nella ricerca della libertà» sono dedicati i tre racconti che il nuovo libro di Paola Baratto raccoglie. A donne come Vittoria, Lidia, Gemma, diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti essenziali, da una «luce differente» che trascorre da una storia all’altra sul filo di una continuità profonda, sostanziata dai caratteri dei personaggi e dai temi di cui si nutre una poetica riconoscibile da un libro all’altro dell’autrice.

L’esperienza che vivono, tutt’e tre, si realizza in un posto che non è quello in cui vivono abitualmente, e questo scarto gioca un ruolo non secondario nello sguardo che rivolgono ai luoghi e alle persone: la sensazione che prova Vittoria al ritorno nella città natale rimanda a quella di Lidia in visita a un paese di mare e di Gemma trasferitasi quale custode in una casa museo.

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Indizi e bazzecole

Susan Glaspell, Una giuria di sole donne, Sellerio 2022 (pp. 96, euro 12)

Il testimone, lo sceriffo, il pubblico ministero non hanno dubbi: se un uomo è stato trovato morto nel suo letto strangolato con una corda, l’assassino non può che essere la moglie, che al testimone era apparsa indifferente al fatto; preoccupata, se mai, per i suoi vasi di conserva. Non si tratta dunque che di individuare il movente, di scovarne gli indizi.

La moglie dello sceriffo, che ha dovuto seguire il marito sulla scena del crimine per scegliere alcuni effetti personali da far avere all’omicida, ormai in carcere, e ha chiesto in quel difficile frangente la compagnia della consorte del testimone, sembrano non avere opinioni sulla faccenda, si aggirano per la casa facendo le loro osservazioni su particolari minimi: “le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole”, è il giudizio benevolmente supponente degli uomini.

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Storie di vita al supermercato

Annie Ernaux, Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022 (pp. 112, euro 13)

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo”, un luogo che non sa integrare in sé i luoghi così come li intendevamo, spesso classificati come “luoghi della memoria”. Marc Augé, coniando l’espressione e identificando il concetto ha anche indicato una tipologia: appaiono non luoghi gli aeroporti, le autostrade, le catene alberghiere, ma anche “i grandi spazi commerciali”. È facile riconoscere come non luoghi le immense hall degli aeroporti, le camere omologate e stranianti dei grandi alberghi identici in tutto il mondo e certamente spazi fatti per le auto e non per gli uomini (se non nella loro forma di passeggeri) come le autostrade; un po’ forzata ci appare invece la definizione se applicata a supermercati e centri commerciali. Perché? È avvenuta, o per lo meno è in corso, una loro evoluzione che li ha tolti dallo statuto, e dal vissuto, di non luoghi? (senza per questo farne “luoghi della memoria”, anche se vicende come quella del Freccia rossa a Brescia e di altre strutture del genere, candidate a una prossima archeologia commerciale, fanno pensare…). Oppure si sta assistendo a una metabolizzazione dei non luoghi che ci ha portato a farcene una ragione, ad abituarci ad aggirarci in essi come facevamo, e qualche volta facciamo ancora, nei mercati che (sempre meno stabilmente) occupano le piazze cittadine?

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Un’umanità altra, irripetibile e scomparsa

Paolo Malaguti, Il Moro della cima, Einaudi 2022 (pp. 280, euro 19,50)

“Mestieri, tasse, fèmane. E te mori prima di tirare el fià”. Il destino di chi ha lavorato, messo su famiglia e dato allo stato il dovuto, però, concede a volte di tirarlo il fiato, perché “passati gli ottanta non serve essere strolgadori per cogliere i segni e rassegnarsi che, se non la va a giorni, ben che vada la va a mesi”. Eppure, qualcosa di cui stupirsi il vecchio montanaro, ormai vicino alla fine, ce l’ha: “Le rare volte in cui aveva avuto tempo libero a sufficienza per pensare alla morte, il Moro non se l’era immaginata così banale. Con quello che aveva passato, con quanto gli era toccato vedere, mai avrebbe creduto di avere il lusso di crepare in casa”. Men che meno “di andarsene da questo mondo ridendo”.

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Tu vivi, ma la vita non c’è

Piccole ballate. Pensieri in forma poetica di donne ucraine, a cura di Olha Vdovychenko, secondorizzonte – liberedizioni 2022 (pp. 96, euro 10)

La luna di Kiev, innanzitutto, e la domanda di Gianni Rodari: “Chissà se la luna / di Kiev / è bella / come la luna di Roma, / chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella (…)”. E poi loro, le donne ucraine autrici di queste Piccole ballate: “In Ucraina scorrono i minuti: / qualcuno va al funerale, / qualcuno al battesimo. / Ma qui il tempo si è fermato e non si muove: / tu vivi, ma la vita / non c’è”, constata Olha Kozak, e un’altra Olha, Olha Zavada, allarga lo sguardo alle sue compagne: “Occhi grigi, occhi bruni, snelle e robuste, se ne vanno le belle donne dalla Ucraina-madre. Vanno in un paese straniero non per riposare, non fanno crociere, vanno a lavorare. Hanno lasciato a casa tutti i loro cari: i mariti amati, i loro figli, i vecchi genitori. Là erano ingegneri, maestre e sarte, all’estero sono diventate domestiche-schiave (…)”.

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Indossare la propria vita come un vestito

Georges Simenon, Il dottor Bergelon, Adelphi 2022 (pp. 195, euro 18)

Lui, Bergelon, medico condotto, moglie e due figli, vita modesta, lavoro e casa; l’altro, Mandalin, padrone di una clinica, piccola ma remunerativa (nella misura in cui medici come Bergelon gli mandano i propri malati), vita brillante, ricevimenti e cene, come quella cui invita anche il collega che alla fine si è lasciato convincere e ha fatto ricoverare alla clinica una donna alla vigilia del parto. Stanno esagerando nel bere, sia il padrone di casa che l’ospite, quando non possono esimersi dal soccorrere la partoriente, ma sono ubriachi… Risultato: durante la notte, muoiono sia il bambino che la madre, e il marito, e mancato padre, comincia a perseguitarli, a minacciare soprattutto Bergelon, che sente più simile a sé e proprio per questo imperdonabile. Senonché, il dottore nasconde nella sua normalità, nel decoro della sua vita, nella routine della sua professione un’anima inquieta. Né felice né infelice: potrebbe continuare fino agli ultimi giorni la stessa vita se non fosse intervenuto quell’episodio, in sé privo di conseguenze per la sua figura pubblica ma capace di far deflagrare la sua intima insoddisfazione. O meglio: il suo non aver saputo mai aderire alla propria vita, l’aver sempre sentito di indossarla, ogni giorno, come un vestito, sotto il quale non c’è un Io pronto a manifestarsi, a realizzarsi magari, ma solo una vaga aspirazione a cercare altro, un’altra donna, un altro luogo, un altro mestiere forse. Non si spiegherebbe altrimenti la strana attrazione che il giovane medico prova per il vedovo che lo minaccia di morte e pure percepisce a sua volta una vicinanza con la sua vittima potenziale.

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Un assillo inevitabile, forse addomesticabile

Julian Barnes, Niente paura, Einaudi 2022 (pp. 248, euro 19,50)

“La consapevolezza della morte si è palesata presto per me, quando avevo tredici o quattordici anni. (…) Di recente il mio amico R. mi ha domandato se penso spesso alla morte, e in quali circostanze. Almeno una volta al giorno, gli ho risposto, senza escludere gli intermittenti attacchi notturni. L’idea della morte si insinua sovente nella mia coscienza quando il mondo di fuori offre un parallelo evidente: al calare della sera, quando le giornate si accorciano, o verso la fine di una lunga camminata.” Si può scrivere un libro all’insegna dell’ironia e dell’umorismo partendo da presupposti simili? Barnes lo fa, raccontando aneddoti sui propri genitori e il fratello filosofo, sulla propria adolescenza e la propria formazione, all’insegna di un’irreligiosità che ammette tuttavia un continuo rimuginare sulla possibilità di credere nell’esistenza di Dio e su quel che significa il non credervi (“Non credo in Dio, però mi manca. Ecco cosa rispondo quando me lo domandano”), e non esclude la frequentazione dei luoghi di culto (“Entro sovente nelle chiese, ma per interessi architettonici”).

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Poesie che sanno raccontare

Andrea Bajani, L’amore viene prima, Feltrinelli 2022 (pp. 62, euro 10)

Si ha ancora in mente il bambino del Libro delle case (Feltrinelli 2021, in queste note nella primavera dello scorso anno), che trovava la sua compagna di giochi in una tartaruga, custode longeva della casa, quando Bajani ci fa incontrare un altro bambino, un neonato. Il suo bambino. Già nel romanzo si faceva notare una lingua e un periodare ricchi di suggestioni e sfumature, capaci di dire quello che solitamente, più della prosa, è la poesia a saper dire, ed ecco ora queste poesie che sanno raccontare, come le note di un diario: “l’unica cosa che sono riuscito a fare, in quel lasso di tempo [le settimane successive alla nascita del figlio], è stata aprire un quaderno e appuntare dei versi. Registravo accadimenti minimi (…) I fatti, quello che succedeva, in fondo, era tutto quello che avevo da dire”. Molto e poco al tempo stesso: questi “canti minuti raccontano ciò che non si riesce a spiegare forse perché è troppo complesso e al contempo troppo semplice: un neonato nel suo primo mese di vita”, ed è qui che viene in soccorso la poesia, appunto.

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Nutrirsi di mancanze

Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio 2022 (pp. 256, euro 16)

 “Perché ogni cosa di te mi fa dimenticare che non ci sei? Succede per davvero. Io non ci credo che non ci sei. Ma dura il tempo di un battito di ciglia”. L’ottantenne Severino non ce la fa a stare solo nella casa che la moglie Anna ha improvvisamente abbandonato, e allora lascia Stromboli – dove si erano stabiliti “per godersi la vecchiaia”, dopo gli anni in cui lui era stato impiegato postale – e torna a Librizzi, sulla collina del messinese, il paese dove si erano sposati una cinquantina d’anni prima, nel 1964 (e che è anche il paese dell’autore). Il racconto della peregrinazione del vecchio (i paesi, le case che hanno abitato, le persone che conoscevano) e il progressivo emergere della storia, di Anna e sua, marciano di pari passo, mettendo in scena altre figure, dando loro la parola nell’alternanza delle voci narranti e nel seguito discontinuo degli episodi narrati senza riguardo per la cronologia.

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Che cosa la letteratura può essere, oggi

Caterina Bonvicini, Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, Einaudi 2022 (pp. 242, euro 16)

“Mi sono resa conto che per raccontare il mediterraneo – immenso, sterminato e vuoto, come ti appare durante una traversata – puoi solo aggrapparti ai dettagli. Una visione del problema dall’alto rende tutti troppo ragionevoli, o troppo irragionevoli. E questo ci fa perdere umanità. I dettagli invece destabilizzano, diventiamo più fragili e quindi più capaci di cogliere la fragilità degli altri. È il dettaglio che agisce davvero su di noi, e ci cambia. (…) La nostra immaginazione è banale perché non conosciamo i dettagli. La nostra immaginazione è pericolosa perché è banale. La nostra immaginazione, banale e pericolosa, è facilmente manipolabile e viene usata contro di noi. E forse i dettagli sono l’unica arma che abbiamo per difenderci. L’unica via per entrare in una tragedia senza accesso e senza testimoni, insondabile”. L’unica via per parlare di donne e uomini ognuno con un nome, una storia, una speranza.

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Raccontare la fine

Irvin D. Yalom, Marilyn Yalom, Una questione di morte e di vita, Neri Pozza 2022 (pp. 208, euro 18)

“Compagni di scrittura” per un’intera vita, “nonostante quattro figli” e i vari incarichi che l’insegnamento e la professione hanno comportato: il libro è scritto a quattro mani, anche se Marilyn non c’è più. Ma prima di morire aveva proposto al marito di scrivere un nuovo libro, “un libro che dovremmo scrivere insieme”. Questo, appunto, che racconta “i giorni e i mesi” della malattia finale, e insieme la vicenda di “una coppia molto fortunata”, unita fin nel percorrere “il sentiero che infine conduce alla morte” – entrambi sono ormai vicini a novant’anni – sulla scorta di un convincimento espresso da Irvin nella sua Psicoterapia esistenziale: che “è più facile affrontare la morte se si hanno pochi rimpianti per la vita che si è vissuta”. Più facile, non risolutivo. La domanda di fondo resta: “Come possiamo vivere dando un senso ai nostri giorni fino alla fine?”

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Le ombre del passato

Paolo Maurensig, Il quartetto Razumovsky, Einaudi 2022 (pp. 148, euro 17,50)

“Non è lontano dalla verità chi oggi afferma scherzando che la Seconda guerra mondiale si sia conclusa con l’invasione tedesca degli Stati Uniti”. Una migrazione avvenuta non prima della guerra – e dunque Thomas Mann, Theodor Adorno, Bertold Brecht e tanti altri intellettuali costretti dal nazismo a lasciare il loro paese non c’entrano –, ma dopo, quando “non solo intere famiglie ma vere e proprie comunità furono trapiantate dalle ceneri di una nazione rasa al suolo a una prospera terra promessa. Alcuni, però, si portarono dietro anche l’ombra del loro passato”, il timore costante di essere riconosciuti per quel che erano stati e per ciò in cui avevano creduto (e credevano ancora, nel caso del protagonista). Tra questi tedeschi espatriati troviamo anche quattro musicisti, un tempo celebri per l’esecuzione del quartetto beethoveniano richiamato nel titolo del romanzo, l’ultimo scritto da Paolo Maurensig, scomparso meno di un anno fa.

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Una vicenda enigmatica al ritmo della commedia brillante

Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso, Marsilio 2022 (pp. 240, euro 16)

Non è la prima volta che la famiglia dell’autore dei Promessi Sposi attira la curiosità di uno scrittore: “un tentativo di ricostruire e ricomporre per disteso la storia della famiglia Manzoni”, “sparpagliata in diversi libri, per lo più introvabili”, l’aveva fatto quarant’anni fa Natalia Ginzburg, che nella nota di prefazione al suo La famiglia Manzoni avvertiva che si tratta di una vicenda “tutta cosparsa di vuoti, di assenze, di zone oscure. Come d’altronde ogni storia famigliare che si cerchi di rimettere insieme. Tali vuoti e assenze sono incolmabili”. Sono proprio le storie lacunose, forse, che si prestano ad essere rivisitate, sull’onda di un’immaginazione capace di colmare quei vuoti. Ciò che a suo modo fa Zaccuri, convinto – come si è letto in una recente recensione del suo libro apparsa sul “Giornale di Brescia” – di come fosse “indispensabile, per raccontare la storia Manzoni o immaginarne una alternativa, narrare la storia di Giulia, figura decisiva nella sua vicenda personale”.

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