Un tempo fuori dal tempo

Benjamin Gross, Un momento di eternità. Il sabato nella tradizione ebraica, EDB 2018 (pp. 206, euro 19,50)

Lo shabbat: “il contributo più importante che l’ebraismo ha portato all’umanità”, avverte inapertura Benjamin Gross. Per tutta l’umanità, per ebrei e non ebrei, per credenti e non credenti. E lo stesso si può dire per questo libro del grande pensatore ebraico scomparso tre anni fa. Chi, infatti, ha una conoscenza soprattutto letteraria dell’ebraismo e delle sue pratiche trova in queste pagine le nozioni necessarie per tradurre le suggestioni che gli sono venute dalla lettura di romanzi e racconti in riferimenti filosofici precisi, in rimandi essenziali al grande racconto biblico e al significato profondo che si manifesta nel rito delle festività del calendario ebraico. Ma, quel che più conta, trova anche lo spunto per riflessioni che lo riguardano, perché rappresentano una critica stringente della concezione del tempo che domina il nostro mondo. Una concezione disposta a riconoscere la necessità di un giorno di riposo settimanale, non fosse che già l’espressione, giorno di riposo,  richiama  l’immagine della saracinesca abbassata di un pubblico esercizio, e dunque la sensazione che sia un significato puramente utilitaristico quello che si attribuisce all’interruzione del lavoro (sempre che, di questi tempi, non finisca col prevalere l’imperativo alla continuità dei consumi in untempo del tutto indifferenziato, come il dibattito sull’apertura domenicale di negozi e centri commerciali fa presagire).

E’ su questo sfondo, a confronto con questa mentalità diffusa, che risalta la concezione dello shabbat,occasione per ricordare che “C’è un tempo fuori dal tempo abituale, totalmente altro, che è un riferimento per la coscienza di fronte allo scorrere incessante del tempo.” Non ci troviamo di fronte, semplicemente, a un invito giudizioso a rallentare il ritmo delle nostre giornate, né solo all’offerta di un espediente per lenire il dolore – del quale si può essere più o meno consapevoli – cheappunto lo scorrere del tempo genera. L’osservanza dello shabbat, l’astensione dal lavoro non in quanto faticoso ma in quanto espressione della volontà di lasciare un segno nel mondo, coincide con il riconoscimento di un limite, e rappresenta perciò la via per mettere a fuoco un impegno decisivo, essenziale, senza il quale la nostra umanità è sviata, la nostra vita mancata: l’impegno a coltivare la capacità di vedere una dimensione della realtà, degli altri, di noi stessi, che non si esaurisce in ciò che lo sguardo ordinariamente ci offre, che non si risolve nell’esteriorità e in un presente che rende superfluo il passato e non sa immaginare il futuro. Un impegno non effimero ad ammettere il bisogno di un senso, di un’ulteriorità, di una trascendenza immanente, operante, ravvisabile qui e ora; un impegno a non cedere all’insensatezza che pervade il nostro essere sociale, a non proiettarla sulla nostra intera esistenza: non si è gettati nel mondo; si è parte, per quanto infinitesimale, di una storia nella quale dimensione cosmologica e dimensione umana si integrano. Non si nasce da se stessi, ma da “persone che non sono come le altre”, i genitori: persone “che l’individuo non ha scelto, ma alle quali è indissolubilmente legato” perché è da loro che proviene la coscienza di essere, tutti, anelli di una catena, parte di una storia, creature chenon possono prescindere da un rapporto che, come quello di filiazione, permette di cogliere la propria umana natura.

Le acquisizioni della fisica, dell’astrofisica contemporanea soprattutto, così come gli orizzonti del pensiero ecologista balenano qui e là in un discorso capace di attenersi al tema che si è dato ma anche di misurarsi con la realtà dell’oggi, con il nichilismo più o meno esplicito che circola nella società e pervade le vite, con l’“indifferenza” e l’“irresponsabilità nei confronti della dimensione sociale”, con la perdita della “nozione fondamentale del limite”. E’ in questo confronto serrato che emerge un’innegabile “tensione tra lo spirito occidentale e l’esistenza ebraica” in quanto testimonianza – nei suoi principi fondamentali, in quello dell’osservanza dello shabbat in primo luogo – della possibilità, per “un mondo disorientato”, “di ritrovare il soffio di una vera vita, che non sia né abbandono alla materialità, né evasione in un idealismo astratto”, sull’onda di un sentimento di nostalgia e insieme di speranza. Nostalgia e speranza: i due volti di un identico bisogno che definisce il nostro essere uomini, incapaci di rassegnarci a una vita senza significato, attraversati da un senso di perdita e allo stesso tempo da una tensione inestinguibile verso un mondo nel quale la serenità dello shabbat si estenda agli altri giorni, a tutti quelli che ci è dato vivere.

Le storie degli altri

Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi 2018 (pp. 185, euro 17)

“Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”: più che una scelta, una condizione. La protagonista – scrittrice, ad Atene per insegnare in un corso di scrittura – si chiede se sia “più reale” “vivere nel momento o fuori di esso”: nel frattempo, osserva gli altri, li ascolta soprattutto.

Si forma l’opinione che la maggior parte della vita, e delle scelte che si compiono, non avviene in uno stato di consapevolezza, ed è una cosa che si paga, questa: “Talora penso che (…) uno forgi il suo destino in base a ciò di cui non si accorge o per cui non prova compassione, e che infine sarà costretto a sperimentare proprio ciò che non conosce né si sforza di comprendere.” Ma del resto, forse ha ragione quel tale (uno dei tanti che lei ascolta) convinto che “migliorare le cose è impossibile, e che ne sono altrettanto responsabili le brave e le cattive persone, e che forse l’idea stessa di miglioramento è una fantasia personale, solitaria (…)”. Un modo di vedere che sembra trovare un corrispettivo nella parole di quell’altro, secondo il quale “una storia può essere una semplice successione di eventi nei quali ci sentiamo coinvolti, ma sui quali non esercitiamo alcuna influenza”, per cui “è pericolosa la tendenza a romanzare le nostre esperienze, inducendoci a credere che nella vita umana ci sia un qualche disegno e che siamo più importanti di quanto siamo in realtà.”

Da riflessioni simili, e da una disposizione solo apparentemente passiva rispetto a quel che succede e a chi si incontra, nasce quello che non a caso l’autrice identifica come un recosonto, più che un romanzo. Un resoconto fitto, però, di considerazioni sull’artificiosità dello sforzarsi perché qualcosa accada, sulla convenienza di vivere come una rondine sorvola il territorio, seguendone le forme senza poggiar visi, sull’inevitabilità di avvertire l’esistenza “come un dolore segreto, un tormento interiore impossibile da condividere con gli altri”. Tanto che nel racconto di un altro, che pure lei segue, non può non sentire “il resoconto di ciò che lei non era”, una sorta di “antidescrizione” che, tuttavia, le dava un’idea della persona che era adesso.”

Molte chiacchiere si sono lette all’uscita di questo libro, assunto come prova della ormai decretata (e pare mai avvenuta) morte del romanzo: “Ho cercato di ripensare le convenzioni del romanzo moderno, ammette Cusk in un’intervista (“La Repubblica”, 13 settembre), per controbattere, però, che le sue scelte nascono solo dall’esigenza di “sentirsi libera”, non volendo “camuffare il fatto che la narrazione è compromessa da diversi punti di vista, come invece fa la letteratura tradizionale”, e dovendo quindi “stravolgere le convenzioni, in maniera intuitiva”.  Ha detto bene un altro commentatore (Paolo di Paolo, sullo stesso giornale un paio di giorni dopo): “E’ come se Cusk trovasse la forma di ciò che scrive mentre la sta cercando. Funziona così: qualcuno narra di qualcuno che sta narrando, e si limita ad assecondare quel movimento”. Viene in mente il bel libro di un sociologo, Paolo Jedlowski: Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori 2002). La vita come intreccio di storie, nostre e degli altri, così il sociologo, ma non diversamente la romanziera: “M’interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite: si creano, senza volerlo, piccole strutture narrative affascinanti.” Affascinanti e tanto ricche da giustificare una trilogia, di cui Resoconto è il primo volume.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una lettura nuova della Montagna magica, una riflessione essenziale sulla medicina del nostro tempo

Vito Cagli, La medicina ne La montagna magica di Thomas Mann, Armando Editore 2018 (pp. 80, euro 18)

Fine biblista al tempo in cui scriverà Giuseppe e i suoi fratelli, musicologo aggiornato sui caratteri della dodecafonia quando si dedicherà al Doctor Faustus, Thomas Mann si rivela conoscitore dei più recenti sviluppi della concezione e dei metodi della medicina nei primi anni Venti mentre lavora alla Montagna magica. “Un estimatore e un ammiratore della scienza medica” si dichiarava del resto lo scrittore stesso. E tale appunto si dimostra nel romanzo ambientato a Davos, dove, è bene ricordare, sua moglie era stata paziente di un sanatorio pochi anni prima della Grande Guerra, in un’epoca nel quale la cura della tubercolosi polmonare non poteva ancora contare sulla cura antibiotica e al regime di vita imposto in quel mondo fuori dal mondo, in quelle “isole della maga Circe” fuori dal tempo che erano i sanatori si attribuiva una funzione decisiva. Così come un ruolo centrale occupava la capacità diagnostica, ancor prima della proposta terapeutica. Entrambe descritte da Mann “in modo perfettamente aderente” a quelle che erano le concezioni  e le conoscenze dell’epoca, come dimostra il puntuale raffronto che Cagli opera fra le posizioni via via assunte dal dottor Behrens, il dirigente del sanatorio, e quanto si legge nel Trattato di un luminare del tempo, il professore Adolph Strümpell.
Ma questo libro va oltre questa documentata constatazione. Le sue pagine suggeriscono un altro modo di attraversare la storia di Hans Castorp – che del resto lo stesso autore riteneva dovesse esser letta due volte (almeno, aggiungiamo noi) – e più in generale di riconsiderare uno dei temi centrali nella narrativa manniana, presente anche in altri romanzi e racconti come puntualmente ci segnala Cagli nelle prime pagine del suo saggio: la malattia, i suoi significati, le sue implicazioni. Oltre all’”amore per la verità” – ci ricorda Cagli – “il senso per la malattia” era, a detta dello stesso Mann, la seconda “tendenza del suo carattere”. Ma che cos’è, come si può intendere la malattia? “Rottura delle regole, disordine, via delle conoscenza, spinta alla genialità oppure, soltanto, semplice processo biologico alterato che segue esclusivamente le leggi del mondo fisico”?  Una domande aperta, che si declina secondo i punti di vista dei diversi personaggi della Montagna magica, e lascia comunque fin da questo romanzo trapelare quell’“ombra nel pensiero di Mann” che si manifesterà con chiarezza molti anni dopo, in un romanzo breve, L’inganno, dove apparirà chiaro come “ogni costruzione sui possibili significati della malattia si scontri con l’ineluttabilità delle leggi biologiche”.

Thomas Mann era comunque “interessato alle interpretazioni della malattia secondo le teorie che, sulla scia di Freud, tentavano di indagare il ‘misterioso salto’ fra psiche e corpo”, aprendo a una “visione in cui il taedium vitae passa da patologia organica (l’‘esaurimento nervoso’) a categoria psicologica” e “una malattia somatica diviene il mezzo per acquietare un diverso e più profondo disagio”. Le sue pagine tuttavia sembrano a volte anticipare osservazioni come quelle che Virgina Woolf esprimerà pochi anni dopo, nel 1930, individuando nella malattia l’occasione di uno sguardo diverso, che “adorna le facce degli assenti (abbastanza normali quando in salute) di nuovi significati, mentre la mente imbastisce su di loro migliaia di leggende e romanzi, per cui non ha né tempo né libertà in salute”. La malattia come occasione favorevole alla produzione letteraria, dunque. Non è un caso che lo stesso Cagli sia autore di un altro libro Malattie come racconti (Armando 2005), che significativamente echeggia fin dal titolo il Malattia come metafora di Susan Sontag, e, soprattutto, rimanda anche alla considerazione che “la letteratura e ogni altra forma d’arte dovrebbero far parte del corredo formativo del medico e lo aiuterebbero ad accostare i pazienti come esseri umani e a saperci confrontare con la malattia e la morte”. E’ infatti questo uno dei tratti di fondo del pensiero di Vito Cagli: la riflessione sulla malattia fa tutt’uno con  la considerazione critica della medicina, attraversata sempre dalla sensazione di fare troppo o di far troppo poco.

Più in generale, il saggio sulla Montagna magica merita l’attenzione dovuta a un contributo originale alla riflessione sul ruolo e gli scopi della tecnica nel nostro mondo ed entro questo quadro, appunto, su quell’insieme di procedure che caratterizza la medicina. Un contributo, quello di Cagli, tanto più significativo alla luce del fatto che, se sono numerosi gli psichiatri e gli psicanalisti che riflettono sulle loro discipline e le loro pratiche – da Borgna a Lingiardi a molti altri – non altrettanti sembrano i medici interessati e capaci a muoversi in questa direzione.

Le cose essenziali della vita, e la scrittura

Jón Kalman Stefánsson, Storia di Ásta. Dove fuggire, se non c’è modo di uscire dal mondo?, Iperborea 2018 (pp. 480, euro 19,50)

“Cominciamo dall’inizio: siamo a Vestubær, il quartiere ovest di Reykjavík, all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, e spiego com’è nato il nome Ásta”: un titolo-sommario apre il romanzo. Il luogo, il tempo, la protagonista. Ma non è tutto: “Poi perdo il filo”, conclude l’autore, confermando e anzi accentuando in questo libro il tono di racconto orale della sua scrittura, che qui giunge a una sorta di confidenza con il lettore. Non si tratto di un semplice tratto stilistico, e men che meno del desiderio di risultare accattivante: siamo tutti nella stessa barca, sembra dire Stefánsson con le sue aperture al lettore, tu che leggi e io che scrivo, accomunati dalla condizione umana, dalle vite che stiamo vivendo e, pur dissimili, ci obbligano tutti indistintamente al confronto con le cose essenziali dell’esistenza. Le paure e le speranze, le gioie e le delusioni, le nascite e le morti, gli innamoramenti e gli abbandoni, che la trama del romanzo cucirà insieme come pezze colorate che rimandano una all’altra senza un nesso preciso di sequenzialità, e si accavallano in un andirivieni temporale incessante, ma alla fine lasciano trasparire una storia che prende spunto dalla vita dei personaggi per incrociare quella di tutti. E sono, anche in questo romanzo, le aperture ora liriche, ora aforistiche a gettare il ponte fra le vicende narrate e la più generale dimensione dell’esistenza: fin dal sottotitolo, per poi intrecciarsi al racconto facendo emergere i temi su cui l’autore ci ha abituato a riflettere nei suoi romanzi precedenti (in questi Appunti, lo scorso 18 febbraio).

L’amore e il sesso: motori delle scelte e dei destini, perché solo l’incantesimo che immaginari extraterrestri potrebbero esercitare sugli uomini riuscirebbe a liberarli dall’insoffferenza per la routine che li tortura finché sono vivi; la fragile brevità della vita e l’inevitabilità della morte, il suo essere inscritta nella vita senza per questo risultare serenamente accettabile; la narrazione e la poesia, la scrittura come tentativo di trovare un senso della vita, almeno fin tanto che si scrive: tutto cambia quando mi metto a scrivere. “La scrittura libera qualcosa dentro di me (…) mentre scrivo divento più grande della persona che sono. Sì, mi trasformo in una corda sensibile che vibra tra ciò che è evidente e ciò che è nascosto.” Questa l’esperienza del poeta. Ma il romanziere (perché anche lui, lo scrittore, si fa personaggio del romanzo)? Be’, chi scrive romanzi è ancor più costretto a fare i conti con il mondo in cui viviamo oggi: c’è chi lo incita a scrivere per le nuove generazioni, “per salvare il mondo”, “ma più leggo articoli d’attualità, più mi sembra che il mio compito diventi più vasto, la mia responsabilità più grave. (…) Chi di noi sopravvivrà alle tenebre che in questo momento avvolgono il pianeta?”

C’è però anche chi ti chiede solo di fare il tuo mestiere, dando per scontato che chi scrive abbia il suo ruolo, sia a suo modo necessario. Come il padrone della casa dove lo scrittore si è ritirato per lavorare a questo suo romanzo, che gli offre un migliore sistemazione presso il faro dell’isola chiedendo in cambio la possibilità di pubblicizzare sul suo sito di promozione turistica “la casa dello scrittore, che alimenta il faro”: come il faro rompe l’oscurità delle notti marine così lo scrittore fende le tenebre del mondo. Un “mandato sociale” all’altezza dei tempi… Tempi nei quali nelle librerie campeggia “un grande tavolo posizionato nel posto migliore con i volumi di maggior richiamo (…): i gialli appena usciti, i manuali di cucina, i libri che ci aiutano a dormire meglio, ad avere una vita sessuale migliore, cinquanta modi per non ingrassare mangiando comunque tutto ciò di cui abbiamo voglia (…)”. Ma la banalizzazione è solo un aspetto della nostra epoca dominata dai social, nella quale “alcuni raccolgono ammirazione e fama per il coraggio con cui affrontano le tempeste del mondo, quando in realtà le rifuggono. Anzi, si lanciano nelle tempeste per non dover affrontare se stessi.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il linguaggio dei piedi

Virtus Zallot, Con i piedi nel Medioevo, Il Mulino 2018 (pp. 220, euro 25,00)

In anni non tanto lontani – anni Cinquanta, su per giù – le persone ammodo non dicevano piedi. Dicevano estremità.

Un  pudore di cui non avrebbero probabilmente saputo spiegare le ragioni, ma di cui si può trovare un corrispettivo nell’atteggiamento degli storici dell’arte, grandi indagatori delle movenze e delle posture di braccia e mani, ma assai poco propensi ad abbassare allo sguardo. Alle estremità, appunto. Lo nota Chiara Frugoni – la grande medievista della quale l’autrice si dichiara allieva – che nella sua prefazione ricorda una zia che ogni volta che doveva nominare le estremità premetteva un compito “con licenza parlando”. Un fare ben diverso da quello del Nanni Moretti di Bianca, il cui sguardo è appunto ai piedi che ossessivamente corre ( “Ogni scarpa una camminata. Ogni camminata una diversa concezione del mondo”).   

Tutti atteggiamenti nei quali si possono rintracciare i segni di una storia che affonda le sue radici in secoli lontani, una storia ricostruibile innanzitutto sulla base del patrimonio iconografico che il passato ci ha consegnato: “Nella società medievale piedi e calzature erano figure parlanti”, avverte l’autrice aprendo il suo saggio, e nelle immagini del Medioevo “contribuiscono a definire la condizione fisica ed esistenziale delle figure”, “raccontando storie e frammenti di Storia” a chi, come Virtus Zallot, a una lettura estetico-stilistica antepone un’indagine iconografica che prescinde dal valore artistico, coerentemente occupandosi più di opere minori – bresciane, in alcuni casi – che di capolavori.

E’ quindi la grande lezione della storiografia delle mentalità, della vita quotidiana e della cultura materiale a innervare le competenze storico-artistiche e a permettere di far emergere un “linguaggio dei piedi”, una gamma di “gesti e usi che ancora ci appartengono” e sono documentati da una straordinaria, capillare analisi. Dai piedi mostruosi o diabolici a quelli “che soffrono” – i piedi dello storpio, “bisognoso per antonomasia” nell’arte del Medioevo –, ma, si badi, se è una spina conficcatasi nel piede quella che fa soffrire, si tratta in realtà d’altro: “la spina è peccato da estrarre ed espiare”, così come avere i piedi calzati o scalzi era un dato carico di valenze simboliche, “che elevava o declassava, proteggeva o esponeva”- Del resto, scalzare non significa ancora oggi declassare, compromettere l’autorità o il ruolo di qualcuno? Mentre scalzarsi poteva suggerire la volontà di abbandonare il peccato, sempre che non alludesse a una precisa e a suo modo polemica dichiarazione: si pensi ai primi francescani (o, per altro verso, ai “medici scalzi” della Cina di Mao). Analogamente, in un gioco di rimandi e simbolismi che ha in molti casi perduto per noi l’immediatezza del suo significato, lavare i piedi – e far levare le scarpe a chi arriva – è espressione di cortesia, umiltà o addirittura deferenza al limite della devozione; calcare i propri calzari su draghi e diavoli (o eretici), calpestarli insomma, è il segno della vittoria sul male, o sulla morte; accostare il proprio capo a piedi altrui, prosternandosi, dice della reverenza assoluta di chi  può giungere – o è richiesto, se al cospetto del papa – a baciarli (senza per questo aver nulla a spartire con l’inclinazione adulatoria e servile del  leccapiedi). La preziosità dell’appoggio offerto ai piedi può indicare lo status del personaggio, i cui piedi godono in questo modo del privilegio di non toccar terra, che li sporcherebbe, ma conta soprattutto, in questo senso, la foggia dei calzari, prodotto dell’arte dei ciabattini e dei calzolai non di rado presenti nell’iconografia medievale, figure di artigiani con i quali si conclude questa rassegna, sorta di andirivieni colto e accattivante – grazie anche a un vasto apparato di immagini – fra sacro e profano, fra storia dei privilegiati e vicende di gente comune, fra arte e immaginario.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il paradosso del depresso

Andrea Pomella, L’uomo che trema, Einaudi 2018 (pp. 208, euro 18,50)

Guardarsi da fuori, ma saperlo fare senza perdere un’attenzione penetrante e fedele a quel che accade dentro: una capacità che si fonda sull’assenza di concessioni al bisogno di urlare il dolore incomunicabile che la depressione comporta, e pur arrivando a darne una rappresentazione precisa, aderente alle ricorrenze e alle manifestazioni cangianti d’un male che si è fatto condizione diffusa e per lo più inconfessata.

Ammettere di considerare unica la propria depressione, imparagonabile a quella di cui altri possono soffrire, e nello stesso tempo riferirne con una voce sommessa, impegnata a renderne l’idea a chi non l’ha sperimentata mai, almeno nelle forme virulente qui raccontate. Qui è il punto: l’autore, portatore con ogni evidenza di questa esperienza, non classifica, non spiega – lucidamente critico com’è del discorso che accompagna la medicalizzazione del disagio depressivo – ma, appunto, racconta, a partire dal fenomeno che segnala il male: il cattivo umore al risveglio, immotivato, e pure ineludibile nella sua ambiguità inquietante. Segno di una malattia da curare, o solo di uno stato  che non resta che accettare? Espressione del “carattere difficile” che fin da ragazzo in famiglia gli è stato attribuito, inducendolo a ritenerlo una propria colpa, o percezione oggettiva di quel che sono il mondo, e la vita? Devianza o lucidità al suo grado massimo? Effetto di uno sguardo distorto o d’ una capacità insolita di cogliere la verità della condizione umana? Percezione del leopardiano “solido nulla” o fraintendimento di quel che i giorni, il vivere propongono?

“Nell’epistolario di Freud – cita l’autore – si legge: Nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati. Giacché i due problemi non esistono in senso oggettivo.” Questa “istantanea realistica e feroce della depressione – commenta Pomella – contiene in sé il gioco assurdo, il paradosso impazzito in cui si dibatte il depresso.  Sono malato nell’istante in cui dico a me stesso che la vita non ha significato. Ma se è – oggettivamente – così, ossia se la vita è realisticamente priva di significato, allora gli altri, coloro che invece intravedono nella vita un significato, sono colpevoli di rimozione. Dunque – ecco la conclusione paradossale – si può dire che la malattia è insita negli esseri umani, ma solo coloro che riconoscono di essere malati vengono considerati tali, tutti gli altri si ritengono integri, e quindi l’integrità è la loro malattia.” Di qui la costatazione attorno alla quale ruota tutta la narrazione: “ Il depresso di dibatte tutta la vita in questo corto circuito alimentato dal proprio realismo e dalla propria lucidità.” Dalla “grandiosa presa di coscienza” che lo contraddistingue e lo affligge.

La comprensione e la stanchezza della moglie di fronte al caratteristico “egoismo del depresso” che il marito manifesta, il benefico mantenersi di una relazione luminosa e trasparente con il figlio ancora bambino, gli psicofarmaci e gli psichiatri, e il continuo arrovellarsi sugli elementi “detonatori della malattia” (il precoce abbandono da parte del padre, in questo caso – avvicinabile quindi a quello raccontato nel Male oscuro di Giuseppe Berto, sui cui infatti l’autore si sofferma –, e la rottura che nel bambino di allora si è consumata nei confronti del genitore): tutto per giungere a una condizione per cui, senza aver finalmente trovato un senso della vita, il non trovarne non fa più soffrire. Nella forma della depressione, almeno.

Bando alla – comprensibile – resistenza a leggere di depressi e depressione, in conclusione: la fluidità della narrazione e la pertinenza, la profondità delle riflessioni di cui si sostanzia, preservano questo libro dal rischio della confessione penosa e, soprattutto, chiusa inevitabilmente entro i confini di un’esperienza individuale.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Gli adolescenti: conoscerli, raccontarli

Christian Raimo, Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme 2018 (pp. 112, euro 13)

Christian Raimo, La parte migliore, Einaudi 2018 (pp. 209, euro 18,50)

“Un gruppo con cui stare insieme, un’identità in cui sia facile riconoscersi”: è questo che cercano i ragazzi  dai 13 ai 20 anni che si trovano in Piazza Cavour, dietro il Palazzaccio, a Roma.

E se gli chiedi non esitano: “Io sono fascista”, “pure io sono fascista”. Lo stesso a Milano, Firenze, Padova, Palermo. “Essere fascisti è di moda”, anche nel senso stretto della parola: quelli di Casa Pound vestono Pivert, che fa promozione nelle loro sedi.
Casa Pound e Forza Nuova, riferimenti essenziali nella nebulosa del neofascismo italiano, presenze ormai consuete sugli organi di informazione (si sdogana o li si costringe al gioco democratico intervistandoli?), agenti di un’“educazione fascistoide di massa, quotidiana, spacciata per racconto del reale”, che di fatto ha fomentato il ritorno del “razzismo di strada” con le sue aggressioni e l’ostilità diffusa nei confronti degli immigrati, ma anche con l’affermazione di liste di destra nelle scuole (non mancano esempi a Brescia).
La diffusione del neofascismo fra i giovani non è fenomeno piovuta dal cielo: l’autore ne ripercorre i passaggi  significativi, ne individua i protagonisti, ma è un fatto che i millennials di destra non è dalla conoscenza del passato recente, e neanche di quello lontano, che traggono le loro motivazioni: “Per noi c’è la fascinazione per un simbolo, la bandiera, che agisce sul piano emozionale.” Qualche lettura; le idee, se mai, vengon dopo, ma a contare soprattutto sono le riunioni, i volantinaggi, le affissioni, i turni – per quelli di Blocco Studentesco – per tener aperte le sedi di casa Pound. E una formazione che ha più i caratteri di un’iniziazione; il cameratismo inteso come legame sacro, e regolato da gerarchia e disciplina militari (il nuovo militante giura su un “decalogo” ripreso da quello della decima Mas): l’apparato organizzativo e lo spirito di gruppo, assimilabile a quello di una setta religiosa, fanno la differenza con generiche forme di aggregazione riconducibili alla galassia populista. Non occorrono riferimenti culturali definiti e che abbiano riscontro nella realtà; bastano “sillogismi” come quello che lega “protezione a sicurezza e quest’ultima a identità” perché, di fatto, l’asse si sposti “dalla cittadinanza sociale a quella etnica” e si avviino così la costruzione di una nuova egemonia, la diffusione di un nuovo senso comune, cementato da un sincretismo culturale di cui antifemminismo e mito complottista della “grande sostituzione” sono elemento centrali  e che nei social “sembra aver trovato il suo habitat naturale”.
Tutto questo, in un tempo nel quale “il fascismo non indigna, il ritorno di violenze squadriste non suscita allarme”, l’antirazzismo si coniuga con il sì ai respingimenti, e una più o meno dichiarata ideologia fascista – notava Marco D’Eramo –  “è rimasta l’unica ideologia anti-sistema disponibile per un adolescente”.

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Oltre l’inchiesta, il romanzo: è ancora l’adolescenza al centro dell’ultimo romanzo di Raimo, La parte migliore.
Laura ha diciassette anni, è incinta, dopo un rapporto del tutto casuale con un compagno di scuola. Vive con la madre, da tempo separata dal marito. La narrazione procede attraverso il resoconto di quello che le due pensano, si dicono; più spesso non si dicono.
Leda, la madre, è psicologa, assistente domiciliare di malati terminali,  a confronto con un dolore che “non è una lama”, ma piuttosto “agisce come carta vetrata: consuma, livella, polverizza. E devi osservare questo sfregamento ogni giorno per ore e in ogni deformazione”, per poi, la sera, cercare “di fare pace con la giornata”, cercare di “concedersi un momento anche piccolissimo per sé prima di addormentarsi (…) e almeno per cinque minuti tornare umana, impressionabile.”
Laura la sente, di là dal muro che divide le loro camere, bisbigliare: con Adriano, il fratello morto bambino, tragicamente,  banalmente, per quella che genitori si rimprovereranno come una disattenzione imperdonabile, e sarà causa della fine della loro unione. Un passato che non è passato, che continua a vivere in un rapporto madre-figlia in cui la seconda avverte l’amore della prima  come “nascosto in una scatola che è nascosta in una scatola”. Un rapporto che si complica ora con questa gravidanza accidentale, intempestiva, per nulla desiderata, che obbliga la madre a prendere atto, come fosse una scoperta, del cambiamento della figlia: “una bambina con dentro una donna, non una creatura pronta a essere adulta”, “una figlia che si era fatta una scopata da ubriaca con una ragazzino coglione ed era rimasta incinta”, costringendola per l’ennesima volta a “pagare le conseguenze degli altri, e non poter abbandonare la scena nemmeno per un istante”. Ma sono solo pensieri questi, sensazioni che Leda non lascia trasparire, sicché Laura percepisce nella madre un unico “sentimento: la condiscendenza per ogni fottuto accadimento (…). Per quale cazzo di motivo – si chiede – non si era nemmeno incazzata un minuto quando le aveva detto che era incinta?”

Mentre la vicenda si snoda, lungo queste linee parallele, affiora con un risalto sempre più definito la fisionomia dell’adolescente, degli adolescenti, e del loro modo di stare al mondo. Un mondo separato ma nient’affatto capace di realizzare al proprio interno relazioni di  comprensione e solidarietà : non è un caso che Laura desideri ma non sappia risolversi a confessare ai compagni il proprio stato, col rischio di essere considerata “la vittima, coccolata e compianta”.  Perché la sua è una generazione di giovani che viaggiano solo nella rete, dove “metti mi piace perché vuoi appartenere a una parte, scrivi che apprezzi qualcosa perché sei tu a voler essere apprezzato.” Nessuno che sceglie di “allontanarsi con un viaggio in solitaria, andarsene di casa almeno per un anno con la scommessa di cavarsela”, eppure pronti a tranciare “giudizi sul mondo, su come fosse giusto vivere in Paesi lontani ventimila chilometri”. Di fatto, incapaci di mettere in discussione nulla “con la scusa di mettere in discussione tutto.”
Ma Laura una via d’uscita, un’idea di alternativa ce l’ha: la poesia. “L’unica speranza che coltiva, l’unica arma vera che abbiamo a disposizione, pensa Laura senza pensare, è la forma poetica.” Ed è una scoperta solo sua, una convinzione che la distingue, perché “a scuola si insegna a leggere le poesie e impararle a memoria da quando si hanno sei anni, e non si insegna a scriverla, la poesia”, come si pensasse che “a diciassette anni nessuno rifletta sul senso della vita”. Ma non è solo questione di modelli educativi: “la maggior parte delle persone che Laura conosceva, e che doveva frequentare se non voleva sorbirsi le accuse di essere una sociopatica, non era solo paranoicamente attenta al giudizio della gente, ma passava tutto il tempo alle prese con il bisogno di performarla, la propria vita (…) L’incubo di tutti non era il terrorismo o un tumore a diciott’anni, l’angoscia peggiore erano le figure di merda, e ogni giorno cercavano di sfoderare un’immagine di sé che evitasse la peste dell’imbarazzo (…).”
Ed è qui che lo sguardo del romanziere converge con quello dello psicanalista: “L’esposizione alla vergogna sociale”, la paura di non essere all’altezza, sono oggi i tratti caratterizzanti dei giovani – e, sempre più, non solo dei giovani – secondo Pietropolli Charmet (di cui questi Appunti si sono occupati lo scorso 21ottobre).

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Esperienza della povertà, povertà dell’esperienza

Walter Benjamin, Esperienza e povertà, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi 2018 (pp. 93, euro 12,50)

Più citato che letto: lo si può dire di molti autori, ma certamente l’osservazione si attaglia in modo particolare a pensatori come Walter Benjamin, la cui opera, oltretutto, è spesso ridotta a un titolo, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come la sua fisionomia appare fissata nei ritratti fotografici di Gisèle Freund, nei quali il suo volto si fa icona del filosofo contemporaneo, tormentosamente concentrato, un po’ com’è avvenuto ad Einstein, nell’immagine che ne ritrae l’espressione bonaria e i capelli ribelli.

Un analogo processo di riduzione sembra del resto aver pesato in molte delle biografie di Benjamin, nelle quali la sua vita sembra fatalmente precipitare, e riassumersi, nella fine tragica incontrata nel 1940 a Port Bou, il paese ai piedi dei Pirenei dal quale Benjamin contava di passare in Spagna e raggiungere il porto dal quale imbarcarsi per gli Stati Uniti.

Ebreo per stirpe, comunista a suo modo, intellettuale emarginato – dall’accademia nella quale aveva cercato invano di accreditarsi, dai giornali con i quali non disdegnava di collaborare –, esule per necessità e quindi  “migrante economico” (secondo la calzante definizione di Massimo Palma, il curatore di questo libro): nel personaggio si sommano le condizioni ideali per la sua “santificazione”, la santificazione del genio incompreso prima e della vittima poi.

Libri come questo servono, riproponendo scritti poco frequentati o che meritano comunque di essere riletti, a mettere in guardia contro quella che – al di là delle intenzioni – per il tramite di una facile e tutto sommato comprensibile empatia si rivela per una neutralizzazione, di fatto, della carica critica e per alcuni aspetti provocatoria del pensiero di Benjamin.

La selezione che ci viene proposta assume, alla lettura, il significato di una sequenza ragionata, dalla scopo ben preciso: Il carattere distruttivo e Scavare e ricordare, rispettivamente risalenti al 1931  e all’anno successivo, risultano premessa necessaria a Esperienza e povertà, del 1933, che a sua volta suona come una sintetica prova di quello che si può considerare un classico, un’opera che torna a distanza di tempo, ad ogni rilettura, a dire cose sorprendentemente attuali: è inevitabile pensare alla proliferazione di messaggi determinata dal web e alle sue conseguenze leggendo Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto tre anni dopo.

La perentorietà, il tono che potrebbe suonare vagamente superomistico del primo scritto, così come l’icasticità e la concisione del secondo, si sciolgono in una prosa colloquiale in Esperienza e povertà, non a caso assunto come titolo dell’intera raccolta: la riflessione sul destino dell’esperienza, della possibilità di farne anche nel mondo attuale, trova alimento nel confronto con la povertà, un confronto obbligato per l’autore nella seconda estate passata a Ibiza, dove appunto il saggio venne composto (circostanza, questa, sulla quale si sofferma anche Il miserabile, romanzo pubblicato dallo stesso editore in questi giorni, sul quale questa nota non si sofferma non volendo correre il rischio dell’autorecensione). Ma la povertà di cui Benjamin parla non è tanto quella materiale,q uanto piuttosto la povertà di esperienza. E’ l’esperienza stessa, infatti, ad essere oggi “in ribasso”, e questa svalutazione che è insieme perdita di una risorsa essenziale per la vita, ha preso le mosse dalla Grande Guerra, dai cui campi di battaglia “la gente (tornava) ammutolita”, “non più ricca, più povera di esperienza comunicabile”. L’“impetuoso dispiegamento della tecnica” nel corso dei combattimenti aveva avviato un processo irreversibile: “un’indigenza di nuova specie”, da quei giorni, “si  è abbattuta sugli uomini”, perché la povertà di esperienza è solo un aspetto di una più sostanziale e pervasiva povertà, “non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere.” Non ne mancano i sintomi rivelatori: il tramonto dell’arte di narrare, in primo luogo. E’ questo il nesso fra questo saggio e l’altro che segue, Il narratore, ma prima di passare a quello occorre considerare lo sviluppo che questa constatazione trova in Esperienza e povertà: la perdita della capacità di far davvero esperienza si rivela “una nuova forma di barbarie”. Sennonché – ecco il Benjamin che non si lascia costringere entro le formule della deprecazione dei tempi – è possibile “introdurre un nuovo, positivo concetto di barbarie” se si sa interpretare quella stessa perdita come opportunità di “cominciare daccapo”, di “cominciare dal nuovo”, come hanno fatto del resto i grandi creatori, animati da una carattere distruttivo senza il quale non avrebbero potuto divenire “costruttori”. Così Descartes, Klee. O Brecht e Loos, il cui “segno distintivo è la totale mancanza di illusioni sull’epoca e tuttavia una professione di fede priva di scrupoli a suo favore”.

C’è qualcosa di più, in affermazioni del genere, di quanto espresso nel pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà che Gramsci poco più di un decennio prima riprendeva da Romain Rolland. Quello che entra in gioco è  il significato stesso della cultura, la sua funzione: gli uomini, poveri di esperienza come ormai sono,  si sono stancati della “cultura”; “l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se così deve essere.” E non si tratta di una prospettiva apocalittica, perché “quel che è importante  è che lo fa ridendo”.

E’ questo che stava avvenendo negli anni Trenta? E sta avvenendo ancora oggi, o è già avvenuto? Le parole che concludono il saggio suscitano domande di questo genere, inquietanti, e non facilmente eludibili. Si possono ravvedere corrispondenze in esperienze come quelle del Sessantotto, che innegabilmente è stato animato, anche, dalla pulsione a “far piazza pulita” – per usare ancora un’espressione di Benjamin – di una cultura oppressiva e obsoleta? Ha senso cercarne nel “nichilismo attivo” che secondo Umberto Galimberti serpeggia fra i giovani di oggi? o fra alcuni di loro almeno, quelli che cercano di trasformare la crisi del mondo vitale, nel quale siamo tutti immersi, in una nuova opportunità di ridisegnare i rapporti umani, rimettendo in discussione le mappe – fisiche, mentali e sociali – trasmesse dalle precedenti generazioni”? (La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli 2018)

E’ solo dopo aver attraversato queste riflessioni che leggiamo l’ultimo saggio, il più denso e insieme il più accessibile nella sua scrittura piana ed evocativa di sensazioni che ci appartengono: chi non ha sperimentato il fatto che “Diventa sempre più raro incontrare persone che possano raccontare davvero qualcosa”? Non chiacchierare, non intrattenere, non riempire ad ogni costo un silenzio altrimenti imbarazzante o avvertito addirittura come minaccioso, ma raccontare.

Non si tratta di una superficiale evoluzione dei costumi, è ben di più: “E’ come se una facoltà che ci sembrava inalienabile, la più sicura tra le cose sicure, ci venisse sottratta. La facoltà di scambiarsi esperienze”, venuta meno per una ragione sostanziale: “l’esperienza è deprezzata.” E sappiamo a partire da quale catastrofico evento. Fin qui, Il narratore riprende il saggio che abbiamo letto prima, ma per andare oltre: chi  sapeva narrare – contadino, marinaio o artigiano che fosse – era “un uomo che dispensa(va) consigli all’ascoltatore”, e a suo modo diffondeva “saggezza”. Ora, “l’arte della narrazione tende al termine perché l’epica della verità, la saggezza, sta morendo”, e – si badi – “nulla sarebbe più fatuo di voler ravvisare [in questo processo] unicamente un ‘fenomeno di decadenza’”. Si tratta piuttosto di rintracciarne le cause: l’“emergere del romanzo all’inizio della modernità”, in primo luogo (Don Chisciotte è la personificazione del fatto che la saggezza ha disertato la grandezza d’animo); in secondo, il dominio dell’informazione, “inconciliabile con lo spirito della narrazione”: “Ogni mattina [l’apparto dell’informazione] ci aggiorna sulle novità del globo terrestre. Eppure siamo poveri di storie degne di nota.” Il che significa: poveri di narrazioni che, a differenza delle “notizie”, durino nel tempo, mantengano la loro efficacia senza consumarsi subito. Come accade ai comunicati dei giornali e dei mass media, appunto, che – volendo parafrasare un passaggio di Scavare e ricordare – ci trasmettano soprattutto o solamente “fatti”, incapaci di  restituirci il senso della nostra volontà di sapere, inevitabilmente conculcata  dall’ossessione di essere informati.

Ma c’è di più, molto di più in queste pagine. Conviene limitarsi, qui, a segnalare un passaggio nodale: la morte, il morire, un tempo evento che faceva parte della vita comune – non si spiegherebbero altrimenti le scritte che si leggono sotto le meridiane, come quell’“Ultima multis” visto a Ibiza – “nel corso della modernità (è stato) espulso dall’ambiente percettivo dei viventi”. Il fatto è che proprio nelle espressioni e negli sguardi del morente, rivelatori di una “vita vissuta”, il narratore traeva la propria autorità, condividendola con quella che anche “il più povero dei diavoli” possiede nel morire; perpetuandola poi nei suoi racconti e così coltivando un’“arte” utile alla vita (come le tante ciance sullo storytelling a loro modo, un modo distorto e ambiguo, spesso maldestro, nonostante tutto testimoniano).

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Un doppio puzzle

Arnaldur Indriđason, La ragazza delle nave, Guanda 2018, (pp. 331, euro 18,60)

Non siamo nei paesaggi cupi e coinvolgenti dell’Islanda del commissario Erlendur Sveinsson; non ci troviamo davanti a un romanzo del livello dei capolavori di Indriđason (da La signora in verde a La voce).

Qui è il commissario Flovent a condurre le indagini, ma la storia riesce avvincente in forza della sua struttura: di polizieschi costruiti come un puzzle ne conosciamo, ma La ragazza delle nave non è esattamente questo. I personaggi e i fatti sono immersi in una trama dislocata su due piani temporali diversi, ma non solo: sembrano disposti secondo una logica che li ha scomposti in vicende distinte che sta al lettore ricomporre, scoprendo un intreccio che, alla fine, gli pare fosse tutto già lì. Ma smontato nelle sue parti, appunto.

Un gioco affascinante, che vale la pena di accettare. Con un’avvertenza: non si legga, prima di cominciare, la quarta di copertina. Sarebbe un po’ come partire dalla battuta finale di una barzelletta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La paura di essere nessuno

Gustavo Pietropolli Charmet, L’insostenibile bisogno di ammirazione, Laterza 2018 (pp. 157, euro 16)

Non il desiderio di fama, se non di gloria addirittura: cose d’altri tempi.

Il bisogno di ammirazione è altro, diverso anche da quello di ottenere riconoscimento e considerazione in forza di quel che si fa. Il bisogno  sul quale qui ci si interroga è quello che spinge a “Cercare con ogni mezzo di essere ammirati, cioè di  divenire socialmente visibili, suscitare grande stima – questo sì, ma – circonfusa da meraviglia e stupore.” Insostenibile, tanto è coattivo, condizionante, perché “Non è solo ambizione, suscettibilità, orgoglio, sentimento del proprio valore; è una vera e propria questione di sopravvivenza identitaria, simbolica, di ruolo sociale”. E’ la risposta alla paura più grande: quella di esser nessuno (o di sentirsi tale, perlomeno).

La figura dell’autore – psichiatra e psicoterapeuta che ha dedicato vari libri alla fragilità e alla spavalderia degli adolescenti di oggi (per richiamare il titolo di uno dei suoi studi) –, ma anche i frequenti riferimenti, sin dalle prime pagine, ai ragazzi, ai giovani, lasciano pensare che a quelli si riferisca essenzialmente il discorso. Sennonché, pagina dopo pagina, cominciano a balenare nella mente del lettore figure di adolescenti che non hanno smesso di esserlo una volta divenuti adulti – persone che si conoscono magari, ma ancor più che si incontrano nei telegiornali della sera e nelle cronache politiche dei giornali. Procedendo nella lettura, tuttavia, in certe descrizioni di atteggiamenti riscontrabili entro la cerchia familiare e in certi comportamenti in pubblico, il lettore è a volte indotto a dubitare che anche di lui si parli. E non si sbaglia, perché nella nostra società – la società del narcisismo (e della competizione, continua e pervasiva) – il bisogno di ammirazione risponde a “una grave carenza di autostima” che non riguarda solo i giovani ma “con il passare degli anni anche un buon numero di adulti.” Che è come dire: non si è vaccinati, neanche da adulti, dall’ansia di esserci e dalla coazione a darne prove continue. Perché “L’esposizione alla vergogna sociale”, la vergogna di non essere all’altezza – fisicamente, caratterialmente, economicamente – è ormai tanto diffusa  da “aver contribuito a rendere permalosa una moltitudine di persone giovani e adulte a fronte di eventi relazionali (…) vissuti come gravi attacchi al proprio sentimento di valore.”

E allora, lo dobbiamo riconoscere: i giovani non sono che i segnalatori – più esposti, più sensibili – a un fenomeno che investe la nostra cultura e il nostro vivere collettivo sull’onda di cambiamenti profondi e poco percepiti. La paura dei castighi e il sentimento di colpa, attorno ai quali fino a pochi decenni fa si organizzava l’esperienza infantile e si forgiava il carattere dell’adulto, sono stati sostituiti – per il tramite di un drastico cambiamento del modello educativo – dalla paura della vergogna e da un bisogno di riconoscimento che si differenzia da quello di una volta per “la quantità e la qualità” che lo connotano, ma “soprattutto (per) i mezzi con i quali si cerca di conquistarl(o) e l’esclusiva devozione a questo obiettivo.”

Al fondo di tutto, ecco la conclusione, una mutazione antropologica avvenuta silenziosamente, come tutte le grandi trasformazioni: “il Sé individuale ha preso ampiamente il sopravvento sulle esigenze e i valori della comunità sociale”. “Un cambiamento non da poco, destinato a ricadere in varie forme sull’organizzazione sociale dei prossimi anni, ma del quale “nessuno si scandalizza”. E’ questo a “fa(r) sì che la crisi etica generalizzata passi sotto silenzio e si ritenga che la crisi economica  sia di gran lunga più importante e concreta mentre è molto verosimile che la crisi economica sia parente stretta della crisi etica”.

La pagine finali aprono qualche speranza, indicando strategie e comportamenti in grado di confrontarsi con la “catastrofe” avvenuta e di contrastare la “crisi radicale” che viviamo. Ma sono anche altre le pagine che fanno di questo un libro utile e tempestivo, pagine capaci di restituire con esattezza la fenomenologia di certe situazioni, come quella delle infinite discussioni in cui spesso le coppie si impantanano, o di certi profili, come quello dei “permalosi e offesi”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una bussola e una mappa per i lettori

Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino (pp. 454, euro 29)

La letteratura circostante, “le scritture che ci stanno attorno” ci dicono una cosa molto chiara: è avvenuto, ed è tuttora in atto, “un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento”:

“La maggior parte della letteratura che si scrive oggi non ha più nulla o quasi nulla a che fare con quella che si scriveva ieri o l’altroieri”. Di qui la necessità – in tempi come i nostri, in cui le recensioni sono spesso “promozionali” – di una mappa delle opere degli ultimi anni e di una bussola per muovercisi: questo offre “il doppio binario, storico e critico”, lungo il quale il libro è concepito, senza  “prendere parte per il nuovo o per il vecchio” (in modo esplicito e conclusivo, almeno) e non escludendo anche libri “mediocri o brutti”, significativi comunque delle tendenze in atto. Avviene così, soprattutto nella seconda parte, che siamo messi a confronto con romanzi che non abbiamo sentito il bisogno di leggere – e non leggeremo – (Moccia, per fare un nome) o che abbiamo letto non rimanendone convinti (Giordano, per fare un altro nome), e siamo guidati dall’autore a comprendere le ragioni delle nostre scelte e di giudizi che non eravamo magari stati capaci di formulare esplicitamente: per carenza di riferimenti comparativi o mancanza di strumenti adeguati. Quelli che appunto la prima parte ci fornisce indicandoci le direzioni nelle quali gli scrittori degli ultimi due decenni si sono mossi.

Una prima decisiva constatazione:  il ruolo di “educazione sentimentale e morale” che veniva assegnato alla letteratura” – alla letteratura che teneva a una configurazione formale e a un uso della lingua sorvegliati e consapevoli e nasceva da un confronto imprescindibile con il passato culturale – è ormai un ricordo (o un prodotto “di nicchia”). Anche una volta c’era la letteratura “popolare” (finalizzata al divertimento, amante della ripetizione di temi e intrecci), c’è sempre stata, assumendo poi la definizione di letteratura “di consumo”. Il fatto è che un terzo tipo di letteratura si è imposto, nel mercato e nel gusto diffuso: la letteratura “di intrattenimento”, in cui si distinguono livelli diversi, ma che nel complesso si distingue per la sua pervasività e la sua capacità di attrarre, o contagiare, anche scrittori provveduti e colti, sensibili comunque all’esigenza che i libri debbano essere accattivanti e coinvolgenti ma, al tempo stesso, non richiedano sforzi di comprensione (tantomeno dal punto di vista della lingua e dello stile), non impongano revisioni serie di quel che già si pensa, e soprattutto non  facciano perdere troppo tempo. Ma anche: lascino percepire non solo come e cosa l’autore ha scritto, ma anche la sua persona stessa, il suo “talento performativo” e talvolta il suo stesso corpo. Un po’ come per i cantanti: occorre essere belli, o comunque in qualche modo cool, non basta avere una bella voce…. Ma un po’ anche come per i politici: meglio se lo scrittore viene da fuori, se è cioè per storia e professione estraneo alla pratica letteraria e alle sue regole (come gran parte dei lettori che si identificheranno così senza fatica nell’autore-personaggio…). Di qui il successo delle “scritture di categoria”.

Un disastro? Lo si può pensare, ma quello che importa a Simonetti è offrire i dati necessari per rendersi conto del “rapporto di attrazione e insieme di repulsione” che la letteratura – passando da un complesso di superiorità a uno di inferiorità – ha sviluppato nei confronti della cultura di massa. Un rapporto che traspare inequivocabilmente da alcune propensioni. Quella ad assimilarsi alla attuale “dominante estetica” della velocità, innanzitutto: scrivere veloce (tralasciando introspezione e descrizione, ambivalenze e sfumature dei personaggi) non solo per esser letti in poco tempo ma anche per “scavalcare i recinti della letterarietà”, che proprio nella lentezza aveva a lungo trovato un riferimento fondamentale (e occorre dire che la “macchina editoriale” si è prontamente adeguata al nuovo passo, quando si valuta che i soli titoli di narrativa sono aumentati rispetto alla fine degli anni Ottanta del 600%?).

Una seconda propensione è quella all’ibridazione, alla contaminazione con linguaggi finora estranei alla letteratura o con essa solo tangenti (giornalismo, cinema, fotografia, fumetto, canzone ecc.), all’iniezione di additivi al testo, nel timore che di per sé non regga. Tutte operazioni che la rete mette a portata di mano e incoraggia, e fanno della letteratura un “sistema passante” di narrazioni diverse.

Di nuovo: un disastro? Mah… Si potrebbe anche sostenere che ci troviamo di fronte a “una letteratura che ritorna arte di società. Come prima della modernità”, “ma – attenzione – in un contesto ultratecnologico” che ridefinisce il lettore, non più “individuo solitario e silenzioso” ma “collettività solidale e rumorosa” in cui il “parere idiosincratico” e la chiacchiera, il mi piace/non mi piace assumono legittimazione di critica definitiva.

Ma, “finché esiste una grande letteratura, esisterà un pensiero che ci riflette sopra”, conclude l’autore. E viene in mente un’osservazione ormai variamente ripetuta: il romanzo (il grande romanzo, scritto non con l’unico scopo di intrattenere) non è morto; sono forse i lettori di romanzi (i lettori veri, che non leggono solo per passatempo) ad essere in estinzione. Di quelli disposti a leggere un libro come questo, sul romanzo (ma anche la poesia) e i suoi lettori, difficile pronunciarsi…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il piacere del racconto puro

Gianluca Barbera, Magellano, Castelvecchi 2018 (pp. 237, euro 17,50)

“Quando il palato si ribella davanti alla scipitezza del riso bollito senza alcun ingrediente, si sogna il grasso, il sale, le spezie”, sentenziava lo scrittore indú citato da Braudel (Capitalismo e civiltà materiale), ma la passione per il pepe, la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata,  oltre che nell’Islam e in Cina, agli albori dell’età moderna era viva in Europa soprattutto, dove le tavole dei signori esigevano sapori ricercati e forti. Si spiega allora come mai persino “i sogni degli scopritori” agli inizi dell’età moderna dipendessero dalle spezie, tanto più dopo che, nel Cinquecento, in conseguenza del periplo dell’Africa compiuto da Vasco de Gama, le spezie affluirono in quantità maggiore in Europa raggiungendo anche i paesi del Nord.

È nel quadro di questa epopea delle spezie – recentemente ricostruita attingendo alle fonti più diverse da Orazio Olivieri (L’età delle spezie. Viaggio tra i sapori, dall’antica Roma al Settecento, Donzelli 2018) – che si collocano la vicenda di Ferdinando Magellano e della prima circumnavigazione del globo, e in questa, la storia di Juan Sebastiàn del Cano, personaggio storico e coprotagonista del romanzo di Barbera. La dice lunga il fatto che “due bastoncini incrociati di cannella con noci moscate e chiodi di garofano sormontati da un elmo che regge la sfera terrestre” campeggino nello stemma che quest’uomo si conquisterà al ritorno da un  viaggio durato tre anni, durante il quale quattro delle cinque navi partite sono andate perdute e lo stesso Magellano è morto. Di queste drammatiche peripezie si occupa il romanzo, ma anche di figure indimenticabili: quella dello stesso Magellano, in primo luogo, portoghese che naviga in nome del re di Spagna, ammiraglio che deve farsi obbedire da capitani che proprio per la sua origine lo guardano con sospetto, e non potrebbe essere diversamente in anni nei quali le due potenze marinare si disputano il dominio delle terre d’oltreoceano, non ultime le Islas de la Especerìa, le Molucche, che rappresentano la meta che Magellano vuol raggiungere non doppiando il Capo di Buona Speranza ma cercando un passo che gli permetta di portar le sue navi dall’Atlantico al mare sconosciuto e sterminato che non aveva ancora nome, e che proprio Magellano chiamerà, “non senza irritazione”, Oceano Pacifico dovendone scontare l’“eterna bonaccia”.

È “un fanatico calmo”, quest’uomo zoppicante ma instancabile, “un individuo enigmatico, murato in una specie di mutismo rancoroso”. A rendere la complessità del suo carattere non è la voce di un narratore onnisciente, ma quella di un personaggio implicato nella vicenda, che si fa così mediatore essenziale tra il lettore e il personaggio del grande navigatore: quel Sebastian del Cano che fin dall’inizio esplicita la ragione che lo porta a scrivere. Il romanzo che leggiamo è il suo resoconto, una sorta di espiazione dettata dal desiderio di liberarsi dai fantasmi che lo perseguitano da quando ha tradito, e non una volta sola, il suo comandante, giungendo ad usurpare gli onori e la gloria dell’impresa. Dalla consapevolezza dichiarata della sua colpa, dal bisogno di risolverne il peso in un racconto dettagliato dei fatti, dalla denuncia imparziale e severa della propria doppiezza emerge la seconda figura cui l’autore sa dare una consistenza convincente e suggestiva: si direbbe che del Cano guardi nell’“abisso” della propria interiorità con uno sguardo non dissimile da quello che rivolge alle terre in cui via via si imbatte ed ai costumi, ora pacifici ora sanguinari, dei loro abitanti.

L’immaginario che dobbiamo a Stevenson e Conrad – ma anche a film come Gli ammutinarti del Bounty o Master and commander – pervade le pagine, “tra l’odore della pece e della canapa, lo stridio delle pulegge di bosso sotto le drizze, il suono dei magli sui ferri e i fischi e le grida dei marinai”. Ma più di tutto è un sentimento dell’altrove, dell’inesplorato, a saper ancora raggiungere lettori quali siamo noi che viviamo in un mondo ormai senza segreti, ma non dobbiamo dimenticare – sulla scorta di Italo Calvino – che se “Scoprire il Nuovo Mondo era un’impresa difficile”, “ancora più difficile era vederlo, capire che era nuovo, tutto nuovo, diverso da tutto ciò che ci si era sempre aspettati di trovare come nuovo”.

In conclusione, un romanzo storico, questo Magellano, non piegato a farsi “strumento ideale per fare ideologia”, caricandosi di allusioni politiche all’oggi come spesso fanno narrazioni riconducibili a questo genere letterario – lo nota  Gianluigi Simonetti nel suo La letteratura circostante (Il Mulino 2018) – e men che meno assimilabile alle “postmodernissime finzioni metastoriche” inaugurate dal Nome della rosa, o ai romanzi – storici ma ibridati con il thriller e l’inchiesta – sulla scia dei Wu Ming: è piuttosto “il piacere del racconto puro”, la “narratività” che era “caratteristica del romanzo storico classico” a connotare il libro di Gianluca Barbera.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Vite al dunque

Nicole Krauss, Selva oscura, Guanda 2018 (pp. 323, euro 19)

Hanno un fascino particolare le storie di sparizioni, di volontarie diserzioni dalla trama delle relazioni nella quale si vive immersi, tanto più quando a prendere una decisione in questo senso è un uomo non più giovane ma ricco, affermato, esuberante, possessivo.

Il quale tuttavia – siamo alle prime pagine del romanzo – sente il desiderio di ritrarsi, e di disfarsi di quello che possiede. Perché? Perché fa quello che non faceva più da anni: “Di rado aveva sollevato il capo al di sopra delle poderose correnti della sua esistenza, troppo occupato com’era a tuffarcisi in mezzo. Ma adesso c’erano momenti in cui riusciva a contemplare l’intero panorama, fino all’orizzonte.” Sta di fatto che “negli ultimi mesi c’era stato in  lui un lento dispiegarsi della consapevolezza di sé”, sino a disfarsi di quello che l’aveva tenuto prigioniero: l’ossessione della sicurezza. Ora “non voleva essere sicuro. Aveva perso la fiducia nella certezza”, e questo gli dà un senso di liberazione; qualcosa riprende “a scorrergli dentro come acqua che riprende a fluire nel letto asciutto di un fiume scavato molti anni prima.”

L’altro protagonista, che a capitoli alternati tiene la scena, è la moglie. Un matrimonio finito, il loro, come finisce ogni cosa se la si guarda abbastanza a lungo: “a un certo punto la familiarità si trasforma in estraneità”. Si dice altro di questa fine, con la precisione e la ricchezza di osservazioni che di solito accompagnano la nascita, non la fine, degli amori.

Lei è una scrittrice. Anche per lei la vita è a una svolta, ma non per quella sorta di palingenesi indistinta e appena intravista che vive il marito. Al contrario, lei è in una fase di stallo: “Avevo perso la strada. (…) Avevo finito di scrivere un libro senza averne iniziato un altro e sapevo che avrei potuto impiegare anni a trovare la strada giusta per scrivere il successivo.” Il problema è serio, non si tratta di un ordinario e passeggero blocco dello scrittore. Perché “la scrittura, il cui scopo è attingere a un significato fuori del tempo, è costretta a raccontarsi una menzogna proprio sul tempo; in sostanza, deve credere in qualche forma d’immutabilità, ed è per questo che consideriamo grandi capolavori della letteratura le opere capaci di resistere alla prova dei secoli, se non dei millenni. E questa menzogna che ci raccontiamo quando scriviamo mi mette sempre più disagio”.

Di lui, l’autrice scrive in terza persona; di lei, in prima. Ma ad accomunare le due storie che scorrono in parallelo è il motivo che attraversa la narrazione, più o meno sintetizzabile nella constatazione che l’età, l’esperienza della vita, non accrescono la padronanza su di essa e su noi stessi: è il contrario che avviene se mai, ma allo stesso tempo qualcosa matura: il desiderio di accettare quello che ci capita.

E’ ricco di intuizioni, di aperture su verità esistenziali decisive, questo libro, tanto da che gli si perdona lo sviluppo sempre più incerto e rarefatto della vicenda, fino a un finale che dire aperto non basta a dar l’idea dello sfilacciarsi progressivo di una trama che in vero non era apparsa, fin dall’inizio, l’elemento portante.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Accademici d’Italia e altri animali

Massimo Tedeschi, Villa romana con delitto, De Ferrari 2018 (pp. 143, euro 11,90)

Il lago è lì, con i suoi paesaggi che incantano, la sua paciosità che conquista tanto più quando la stagione è finita  e “i residenti (possono) dedicarsi al loro passatempo preferito: le chiacchiere, i racconti iperbolici sulla stagione passata, i vagheggiamenti su quella a venire”.

E’ un Garda che ha appena cominciato a conoscere il turismo di massa, ma i discorsi sono quelli, ieri come oggi; il loro ritmo è quello che fa dire, a ragione, che il tempo benacense scorre più lento che nel resto della provincia. E come il lago, così lui, il commissario Sartori è al centro della scena: personaggio fresco e inedito, in cui solo per sfizio il recensore può rintracciare tratti che lo avvicinano – lo si notava già parlando del precedete romanzo di Tedeschi, lo scorso 3 dicembre – un po’ a Rocco Schiavone e un po’ a Salvo Montalbano. Come il primo insofferente della nuova grana, ossia delitto, e quindi indagine, che si presenta: non siamo alla “rottura di coglioni di decimo grado” del collega di Aosta, ma certo “una cupezza allibita e depressa” coglie Sartori alla notizia; così come, al pari dell’altro di Vigata, lui detesta il pacco di carte che sulla sua scrivania attendono implacabili la sua firma.

Una volta iniziata, però, l’inchiesta lo prende, indipendentemente dalle pressioni che subito arrivano dall’alto essendo il morto l’illustre capo archeologo – non importa se trafficone e intrallazzato – della Villa di Sirmione, niente meno che un Accademico d’Italia, l’Italia degli anni Trenta, che non perde occasione per ribadire la propria romanità. Se poi c’è di mezzo una vedova nient’affatto disprezzabile, non guasta (ha un debole per le vedove, il nostro commissario, che in questo romanzo continua la sua liaison con quella che a Portese gli mette a disposizione una villa vista lago, e non solo).

Ma non ci sono solo cittadini eccellenti a reclamare che la polizia faccia giustizia. C’è anche l’affittacamere di Sartori che lo supplica di ritrovarle il gatto rapito, e il proprietario del caffè cui è sparito il cane in circostanze altrettanto sospette. Ecco, è nell’idea di intrecciare le due storie (quella dell’Accademico e quest’altra dei due animali) che il romanzo prende un passo ancor più convincente di quello pubblicato l’anno scorso, e in questo senso contano anche l’efficacia delle scene  in cui il pacato Sartori si fa uomo d’azione spregiudicato e intelligente, e i  dialoghi nei quali alle sue battute, che inchiodano la vittima, questa non sa rispondere che con una modulazione di silenzi che si può dire un pezzo di bravura (dal glaciale all’impenetrabile, poi all’interessato, all’incupito, al torvo e via via fino all’accasciato, che segna la resa all’acume del poliziotto).

E infine, il nume tutelare: non quello del Vittoriale, come in Carta rossa e nell’Ultimo record, ma Pirandello. Il quale non è lì, sul Garda, ma grazie alla vedova di Portese e al suo allusivo omaggio lo zampino ce lo mette. Ma cosa c’entra Come tu mi vuoi con la soluzione del caso? C’entra, c’entra… Basta arrivare alla fine, e lo si fa, d’un fiato anche questa volta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Esperienza e povertà

Castelvecchi ha pubblicato quest’estate il saggio che Benjamin scrisse a Ibiza, nel 1933, e che costituisce un riferimento essenziale nel romanzo di Carlo Simoni, Il miserabile: “Era incredibile – dice la protagonista del romanzo – come la depressione che lo attanagliava non gli impedisse di lavorare. Scrisse in quei giorni Esperienza e povertà. Pagine che restano per me fra le sue più toccanti, e profonde, certamente anche perché un giorno ne volle discutere con me. Il venir meno della capacità di narrare non era che la spia di una crisi più generale e profonda, quella della possibilità di vivere accumulando davvero esperienza.”

Walter Benjamin, Esperienza e povertà, a cura di Massimo palma, Castelvecchi 2018)

Più citato che letto: lo si può dire di molti autori, ma certamente l’osservazione si attaglia in modo particolare a pensatori come Walter Benjamin, la cui opera, oltretutto, è spesso ridotta a un titolo, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come la sua fisionomia appare fissata nei ritratti fotografici di Gisèle Freund, nei quali il suo volto si fa icona del filosofo contemporaneo, tormentosamente concentrato, un po’ com’è avvenuto ad Einstein, nell’immagine che ne ritrae l’espressione bonaria e i capelli ribelli. Un analogo processo di riduzione sembra del resto aver pesato in molte delle biografie di Benjamin, nelle quali la sua vita sembra fatalmente precipitare, e riassumersi, nella fine tragica incontrata nel 1940 a Port Bou, il paese ai piedi dei Pirenei dal quale Benjamin contava di passare in Spagna e raggiungere il porto dal quale imbarcarsi per gli Stati Uniti.
Ebreo per stirpe, comunista a suo modo, intellettuale emarginato – dall’accademia nella quale aveva cercato invano di accreditarsi, dai giornali con i quali non disdegnò di collaborare –, esule per necessità, innanzitutto, e quindi “migrante economico” (secondo la calzante definizione di Massimo Palma, il curatore di questo libro): nel personaggio si sommano le condizioni ideali per la sua “santificazione”, la santificazione del genio incompreso prima e della vittima poi.
Libri come questo servono, riproponendo scritti poco frequentati o che meritano comunque di essere riletti, a mettere in guardia contro quella che – al di là delle intenzioni – per il tramite di una facile e tutto sommato comprensibile empatia si rivela per una neutralizzazione, di fatto, della carica critica e per alcuni aspetti provocatoria del pensiero di Benjamin.
La selezione che ci viene proposta assume, alla lettura, il significato di una sequenza ragionata, dallo scopo ben preciso: Il carattere distruttivo e Scavare e ricordare, rispettivamente risalenti al 1931  e all’anno successivo, risultano premessa in qualche modo necessaria a Esperienza e povertà, del 1933, che a sua volta suona come una sintetica prova di quello che si può considerare un classico, un’opera che torna a distanza di tempo, ad ogni rilettura, a dire cose sorprendentemente attuali: è inevitabile pensare alla proliferazione di messaggi determinata dal web e alle sue conseguenze leggendo Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto tre anni dopo.
La perentorietà, il tono che potrebbe suonare vagamente superomistico del primo scritto, così come l’icasticità e la concisione del secondo, si sciolgono in una prosa colloquiale in Esperienza e povertà, non a caso assunto come titolo dell’intera raccolta: la riflessione sul destino dell’esperienza, della crescente difficoltà di farne anche nel mondo attuale, trova alimento nel confronto con la povertà, un confronto obbligato per l’autore nella seconda estate passata a Ibiza, dove appunto il saggio venne composto. Ma la povertà di cui Benjamin parla non è tanto quella materiale, quanto piuttosto la povertà di esperienza. È l’esperienza stessa, infatti, ad essere oggi “in ribasso”, e questa svalutazione, che è insieme perdita di una risorsa essenziale per la vita, ha preso le mosse dalla Grande Guerra, dai cui campi di battaglia “la gente (tornava) ammutolita”, “non più ricca, più povera di esperienza comunicabile”. L’“impetuoso dispiegamento della tecnica” nel corso dei combattimenti aveva avviato un processo irreversibile: “un’indigenza di nuova specie”, da quei giorni, “si è abbattuta sugli uomini”, perché la povertà di esperienza è solo un aspetto di una più sostanziale e pervasiva povertà, “non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere.” Non ne mancano i sintomi rivelatori: il tramonto dell’arte di narrare, in primo luogo. È questo il nesso fra questo saggio e l’altro che segue, Il narratore, ma prima di passare a quello occorre considerare lo sviluppo che questa constatazione trova in Esperienza e povertà: la perdita della capacità di far davvero esperienza si rivela “una nuova forma di barbarie”. Sennonché – ecco il Benjamin che non si lascia costringere entro le formule della deprecazione dei tempi – è possibile “introdurre un nuovo, positivo concetto di barbarie” se si sa interpretare quella stessa perdita come opportunità di “cominciare daccapo”, di “cominciare dal nuovo”, come hanno fatto del resto i grandi creatori, animati da un carattere distruttivo senza il quale non avrebbero potuto divenire “costruttori”. Così Descartes, Klee; o Brecht e Loos, il cui “segno distintivo è la totale mancanza di illusioni sull’epoca e tuttavia una professione di fede priva di scrupoli a suo favore”.
C’è qualcosa di più, in affermazioni del genere, di quanto espresso nel pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà che Gramsci poco più di un decennio prima riprendeva da Romain Rolland. Quello che entra in gioco è il significato stesso della cultura, la sua funzione: gli uomini, poveri di esperienza come ormai sono, si sono stancati della “cultura”; “l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se così deve essere.” E non si tratta di una prospettiva apocalittica, perché “quel che è importante è che lo fa ridendo”.
È questo che stava avvenendo negli anni Trenta? E sta avvenendo ancora oggi? o è già avvenuto? Le parole che concludono il saggio suscitano domande di questo genere, inquietanti, e non facilmente eludibili. Si possono ravvedere corrispondenze in esperienze come quella del Sessantotto, che innegabilmente è stato animato, anche, dalla pulsione a “far piazza pulita” – per usare ancora un’espressione di Benjamin – di una cultura oppressiva e obsoleta? Ha senso cercare analogie con il “nichilismo attivo” che secondo Umberto Galimberti serpeggia fra i giovani di oggi? o fra alcuni di loro almeno, quelli che “cercano di trasformare la crisi del mondo vitale, nel quale siamo tutti immersi, in una nuova opportunità di ridisegnare i rapporti umani, rimettendo in discussione le mappe – fisiche, mentali e sociali – trasmesse dalle precedenti generazioni”?

È dopo aver attraversato riflessioni simili che leggiamo l’ultimo saggio, il più denso e insieme il più accessibile nella sua scrittura piana ed evocativa di sensazioni che ci appartengono: chi non ha sperimentato il fatto che “Diventa sempre più raro incontrare persone che possano raccontare davvero qualcosa”? Non chiacchierare, non intrattenere, non riempire ad ogni costo un silenzio altrimenti imbarazzante o avvertito addirittura come minaccioso, ma raccontare.
Non si tratta di una superficiale evoluzione dei costumi, è ben di più: “È come se una facoltà che ci sembrava inalienabile, la più sicura tra le cose sicure, ci venisse sottratta. La facoltà di scambiarsi esperienze”, venuta meno per una ragione sostanziale: “l’esperienza è deprezzata.” E sappiamo a partire da quale catastrofico evento. Fin qui, Il narratore riprende il saggio che abbiamo letto prima, ma per andare oltre: chi sapeva narrare – contadino, marinaio o artigiano che fosse – era “un uomo che dispensa(va) consigli all’ascoltatore”, e a suo modo diffondeva “saggezza”. Ora, “l’arte della narrazione tende al termine perché l’epica della verità, la saggezza, sta morendo”, e – si badi – “nulla sarebbe più fatuo di voler ravvisare [in questo processo] unicamente un fenomeno di decadenza”. Si tratta piuttosto di rintracciarne le cause: l’“emergere del romanzo all’inizio della modernità”, in primo luogo (Don Chisciotte è la personificazione del fatto che la saggezza ha disertato la grandezza d’animo); in secondo, il dominio dell’informazione, “inconciliabile con lo spirito della narrazione”: “Ogni mattina [l’apparto dell’informazione] ci aggiorna sulle novità del globo terrestre. Eppure siamo poveri di storie degne di nota.” Il che significa: poveri di narrazioni che, a differenza delle “notizie”, durino nel tempo, mantengano la loro efficacia senza consumarsi subito. Come accade ai comunicati dei giornali e dei mass media, appunto, che – volendo parafrasare un passaggio di Scavare e ricordare – ci trasmettano soprattutto o solamente “fatti”, incapaci di restituirci il senso della nostra volontà di sapere, inevitabilmente conculcata dall’ossessione di essere informati.
Ma c’è di più, molto di più in queste pagine. Conviene limitarsi, qui, a segnalare un passaggio nodale: la morte, il morire, un tempo evento che faceva parte della vita comune – non si spiegherebbero altrimenti le scritte che si leggono sotto le meridiane, come quell’“Ultima multis” visto a Ibiza – “nel corso della modernità (è stato) espulso dall’ambiente percettivo dei viventi”. Il fatto è che proprio nelle espressioni e negli sguardi del morente, rivelatori di una “vita vissuta”, il narratore traeva la propria autorità, condividendola con quella che anche “il più povero dei diavoli” possiede nel morire; perpetuandola poi nei suoi racconti e così coltivando un’“arte” utile alla vita (come le tante ciance sullo storytelling a loro modo – un modo distorto e ambiguo, spesso maldestro – forse stanno, nonostante tutto, a testimoniare).

Il bisogno disperato di credere in qualcosa

Paolo Giordano, Divorare il cielo, Einaudi 2018 (pp. 433, euro 22)

Storia di un amore che dura una vita, breve, perché di giovani si tratta: Teresa, Bern e gli altri ragazzi protagonisti del romanzo.

Un amore difficile, tragico alla fine, quello di Teresa, segnato fin dall’inizio da un’ombra, dall’inseparabilità della tristezza dall’affetto. Del resto, Bern – eroe solitario e introverso della storia – finirà per essere uno che “aveva creduto in tutto e smesso di credere in tutto”.
E di credere, di credere davvero in qualcosa questi ragazzi hanno un bisogno disperato, che si tratti d’una fede religiosa totalizzante che affratella gli spiriti, della fusione dei corpi nell’amore e nel sesso vissuti all’insegna della libertà più trasgressiva, della pacificazione con la natura perseguita attraverso un’“agricoltura del non fare” o con i mezzi dell’ecologismo più estremo.
In ogni caso, sentimenti ambivalenti, gelosie e rivalità attraversano la comune, e la vita non sembra rivelare il senso che si cercava: non si può non constatare che “sceglie senza scegliere – la vita –, germoglia in un posto piuttosto che altrove, a caso.” Forse, allora, tanto vale “smettere di pensare” e “affidarsi alla sequenza dei gesti”, per il resto della vita, ogni giorno…

Ci si affeziona ai personaggi di questa storia, alla loro verità, senza tuttavia essere abbandonati dalla sensazione che quella che si racconta sia una vicenda in qualche modo datata, che avremmo potuto leggere una ventina d’anni fa, e non aiuta il fatto che proceda faticosamente, a tratti, con ritorni e riprese di cui non sempre si coglie la logica, e la necessità…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Siamo tutti quietisti climatici

Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore 2018 (pp. 142, euro 13)

“Dopo gli anni Ottanta, le classi dirigenti non aspirano più a dirigere ma si mettono al riparo, al di fuori del mondo”: questo il primo dato di fatto.

Aspetto decisivo di quella “grande regressione” di cui voci diverse cercavano di definire i contorni in un libro di cui ci si è occupati lo scorso 10 settembre (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo  a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017).
Secondo dato imprescindibile:  “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”. Esplosione delle diseguaglianze, deregulation, nazionalismi e populismi è di qui che prendono le mosse: il negazionismo della crisi ambientale da parte di coloro che potrebbero farne il perno di scelte politiche all’altezza dei tempi, così come la rimozione di essa, o lo stato di negazione in cui la maggioranza vive, sono il fulcro dell’attuale inedita involuzione. Lo stesso convincimento che abbiamo trovato in uno scrittore come Amitav Ghosh (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017, segnalato lo scorso 17 settembre).
Trump non è un irresponsabile sfuggito di mano ai poteri forti: il suo ritiro dall’accordo sulla limitazione dei gas serra è la conseguenza di scelte precise e l’espressione di una cultura diffusa.
E vincente, a quanto pare. Destra e Sinistra, di fronte al “Nuovo Regime Climatico” – così lo definisce Latour a sottolinearne la portata epocale – hanno al fondo condiviso l’idea di un progresso che nella globalizzazione, al di là delle posizioni assunte nei suoi confronti, individuava il proprio orizzonte:  “siamo tutti quietisti climatici dal momento che speriamo che, senza far nulla, tutto alla fine si aggiusterà”, ed evitiamo di interrogarci “quale sia l’effetto, sul nostro stato mentale, delle notizie relative alle condizioni del pianeta che ascoltiamo tutti i giorni.” Di fatto, e al di là delle intenzioni, mescolandoci a “coloro che si nascondono dietro Trump” e “hanno deciso di far sognare ancora qualche anno l’America ritardando l’impatto con il suolo – con la reale situazione del pianeta – e trascinando così gli altri paesi nel’abisso, forse definitivamente”.

Occorre aprire gli occhi: “il pianeta è troppo piccolo e limitato per il globo della globalizzazione; ed è troppo grande, troppo dinamico e complesso per essere contenuto nelle frontiere ristrette e limitate di qualsivoglia località”.
Come spesso accade in discorsi del genere, la pars destruens appare fatalmente più convincente della construens, cui l’autore  si dedica soprattutto nella seconda parte del suo saggio (ricorrendo a formalizzazioni che non giovano alla chiarezza).

Quel che resta dalla lettura, comunque, è certamente un’indicazione sostanziale:  inutile parlare di rifondazioni della sfera politica, della mentalità e dell’agire collettivi, restando entro i limiti angusti entro i quali la politica stessa – o quel che generalmente si intende con questo termine – si è ridotta.

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Dickens e Stevenson fra horror e pulp

Ian McGuire, Le acque del Nord, Einaudi 2018 (pp. 278, euro 19,50)

“Azzanna il mondo come un cane morde l’osso. Niente gli è oscuro, niente è alieno ai suoi foschi e feroci appetiti”: è Henry Drax, il personaggio che irrompe nelle prime pagine di questo romanzo, che da subito attirano il lettore in un mondo dai colori lividi e dagli odori sgradevoli fino alla nausea.

Qualcuno ha evocato Dickens, Conrad, e naturalmente Melville (essendo quello della caccia alle balene l’ambiente in cui la storia si svolge): richiami pertinenti, a patto che ciascuno di questi autori sia rivisitato secondo un gusto pulp che sconfina spesso nell’horror. Eppure, la storia non è priva di elementi letterari e di riferimenti psicologici di spessore, così come la scrittura è precisa, efficace, ricca di immagini e capace di sintesi folgoranti. Anche perché a Drax, personificazione del Male e di una disumanità che non conosce sensi di colpa o tentennamenti dettati dalla compassione, subentra dal secondo capitolo e tiene a lungo la scena Patrick Sumner. Non il buono contrapposto al cattivo: anche in Sumner – medico con un passato in India che nell’imbarco su una baleniera diretta nel mare artico cerca di cancellare la sua vita precedente – si annidano ombre e s’è ormai radicato un pessimismo senza ritorno: “contano solo le azioni, solo gli eventi. (…) Pensare troppo è un grave errore. La vita non è decifrabile, non si può assoggettarla a forza di chiacchiere, occorre viverla, sopravviverle, in tutti i modi possibili”. Il che non toglie che lui tenga nella sua cuccetta una copia dell’Iliade, e – quando non è sotto l’effetto del laudano, al quale da oppiomane incallito è uso ricorrere – legga attentamente quel libro, lasciando credere agli altri di essere intento a pregare.

La navigazione si svolge in un ambiente via via più ostile, e gli avvistamenti sono rari. I tempi sono critici per i balenieri, soprattutto per quelli che non dispongono di una nave a vapore e lanciarpioni moderni, e del resto – siamo all’inizio della seconda metà dell’800 –   “l’olio di balena non lo vuole più nessuno. Sono tutti pazzi per il petrolio e per il gas illuminante”. Questo non impedisce che la caccia si svolga, dando adito ad alcune fra le scene più feroci: dalla strage di foche, i cui piccoli vengono uccisi a bastonate, a quella di una balena che, morendo dopo una lunga lotta, crivellata dagli arpioni, “spruzza in aria un alto pennacchio di sangue cardiaco e poi si inclina su un fianco, la grande pinna sollevata come una bandiera di resa.”
A lungo mimetizzato fra i marinai dell’equipaggio, Drax riappare, e il suo ritorno coincide con la fine di un giovane mozzo, violentato, strangolato, cacciato a forza in fondo a un barile: uno Stevenson alla rovescia, in cui  il ragazzo (viene alla mente il Jim dell’Isola del tesoro), non trova in quel nascondiglio l’occasione per smascherare gli ammutinati e divenir protagonista della storia, ma la propria tomba, misera e puzzolente. Proprio il dottore, Sumner, riesce a dimostrare che Drax e non altri è il perverso assassino del povero Joseph, ma a questo punto è l’imprigionamento della nave fra i ghiacci a balzare in primo piano, e qui il racconto sembra prendere a prestito più di un elemento da un altro romanzo, La scomparsa dell’ Erebus di Dan Simmons, del 2007, la cui vicenda ha guadagnato notorietà soprattutto grazie alla serie televisiva che ne è stata tratta e diffusa pochi mesi fa: The Terror.

E’ questo riferimento a rendere ancor più evidente come lo stile della narrazione sia assimilabile a quello di una sceneggiatura, condotta com’è sempre al presente, per frasi brevi, secondo un modulo descrittivo che richiama la distanza imperturbabile dell’occhio della cinepresa.

Un romanzo che si direbbe prefiguri la propria mise en scène, dunque; fedele alle regole della narrazione per immagini anche nel riproporne puntualmente di forti e coinvolgenti, fino alla fine, quando la storia sembrava ormai conclusa e trova invece un ulteriore imprevisto, intrigante sviluppo.

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Il lavoro dell’accordatore e il mestiere di vivere

Miyashita Natsu, Un bosco di pecore e acciaio, Mondadori 2018 (pp. 209, euro 19,50)

 E’ la storia di formazione di Tomura, giovane di montagna che scende alla città per studiare e poi trovar lavoro. Ma è un ragazzo particolare: sente l’odore a lui ben noto del bosco quando si avvicina a un pianoforte, ed è per questo che di pianoforti si occuperà diventando un accordatore.

Un mestiere che lo terrà a contatto con “l’oggetto prodigioso che riesce a scovare la bellezza diffusa nel creato e a darle una forma che giunga alle orecchie”: pur essendo “uno strumento indipendente, con una sua propria personalità” ogni pianoforte capta la musica che è diffusa nel mondo, a patto che sia passato per le mani di un accordatore provetto. Solo allora potrà emettere “un suono di una limpidità luminosa e quieta, carico di nostalgia”, “dolce, fino a un certo punto” ma anche “pieno di severità e profondità”, “bello come il sogno, ma certo come la realtà”. Il buon accordatore si accosta al pianoforte come a una creatura viva, e quindi unica, ma deve anche tener conto del carattere di chi lo suonerà.

Ecco il punto: non si tratta solo di tecnica. Che si tratti di fabbricare dolci o di accordare pianoforti conoscere i segreti del mestiere non è tutto: Natsu come Sukegawa, l’autore di cui in questi appunti si è parlato lo scorso aprile (Le ricette della signora Tokue). Al pasticcere occorre il “sentimento” che lo porta a considerare i fagioli che cucina uno ad uno, ad ascoltarli; non diversamente  l’accordatore non può non sentire “respirare” lo strumento di cui si prende cura. Si tratta in ogni caso di una vicinanza, di una pietas per le cose inanimate che appare condizione di una compassione più vasta, di una capacità di stare nei panni degli altri e di comprenderli. Pianoforte, pianista e accordatore sono tutt’uno: chi prepara lo strumento cerca “il suono che più mette in risalto l’abilità del pianista.

Nessuno pensa all’abilità dell’accordatore. E va bene così”, perché “anche se è il pianista a ricevere gli elogi, non è nemmeno merito suo: il merito è della musica.”

Tomura osserva i suoi colleghi più esperti, si mette alla prova, apprensivo e appassionato. E capisce: che lo si suoni, il piano, o lo si accordi, occorre “sforzarsi ma senza sentire lo sforzo, con pazienza ma senza sentire di doverla esercitare. Quando si è consapevoli dello sforzo che si compie, esso finisce per essere solo un investimento che si vorrebbe veder ripagato.” Occorre andare oltre: “Se si riesce a non vedere lo sforzo come investimento, allora le possibilità aumentano oltre l’immaginabile.” E’ la sapienza che occorre a chi tira con l’arco, a chi medita, a chi semplicemente vuole vivere davvero la propria vita: “ L’uomo è un essere pensante, ma le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa”, diceva Eugen Herrigel (Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi 1987). Ma non è tutto: è necessario anche, perseguendo la perfezione, esser consapevoli che non la si raggiungerà, e dunque è “rassegnazione” che occorre, senso del limite.

Quando attraverso la sua esperienza Tomura capirà anche questo, potrà camminare sereno nel bosco di cui aveva sentito il profumo avvicinandosi a un pianoforte, bosco di pecore e acciaio, strumento che racchiude lana di pecora nella copertura dei suoi martelletti e acciaio nelle corde che attendono la mano dell’accordatore per raggiungere la giusta tensione e quella del pianista per connettersi alla musica che permea il mondo.

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La malattia contagiosa della singletudine

Cristina Comencini, Da soli, Einaudi 2018 (pp. 168, euro 18)

 Dopo una trentina d’anni di convivenza si separano: tra Laura e Piero ad andarsene è lui; tra Marta e Andrea è lei.

Niente di strano: “Il nostro mondo è fatto di separazioni, di individui liberi e soli. Lo sarà sempre di più.” Ma perché? Le voci dei quattro personaggi si alternano nei capitoli, e mentre raccontano, più o meno consapevolmente propongono una risposta.

Può essere la paura della morte a suscitare il desiderio di andarsene: “una storia dall’inizio alla fine è la morte”. Ma anche la solitudine può scatenare la stessa paura: “La nostra vita mi pareva una costruzione invincibile, e la fine della nostra vita individuale una cosa semplice e naturale. Ora invece ho paura di morire. E’ la mancanza di felicità che mi fa venire paura della morte.” E se si trattasse invece di paura di vivere? se fosse una sorta di precauzione quella che induce a “non legarsi, a non vivere emozioni troppo intense”?

O forse non si tratta né dell’una né dell’altra cosa: al fondo della crisi della coppia c’è la coppia stessa, anche se sembra che a minare la sua unione possa essere l’usura della vita a due, fino al suo svuotamento, o all’opposto l’eccesso di condivisione…

Sta di fatto che la singletudine sembra diffondersi come una “malattia  contagiosa”: “le ditte ora fabbricano confezioni singole, uno di tutto”, gli arredatori studiano le condizioni che garantiranno il benessere a un singolo abitante della casa. Del resto, “la famiglia oggi è questo: genitori single con figli”. Ma, appunto, perché? che cosa ci è successo? Il fatto è che “forse non esiste proprio più la possibilità di essere un noi. C’è un io che incontra un altri io e restano sempre solo due io, punto e basta, anche se fanno figli e vivono un po’ insieme.” Poi… Poi ognuno per la sua strada, anche se, a ben vedere, non ci si lascia mai del tutto, mai davvero, e nessuno è vincitore, neanche quello che ha deciso lo strappo. Forse perché una donna lo sa, “si è la moglie di un solo uomo”. E lui, l’uomo? scoprirà di essere, anche lui, marito di una sola donna?

Domande che restano aperte, in un mondo nel quale “non c’è niente di più incongruo e antimoderno che amare una sola persona per tutta la vita”. E allora “L’essenziale è non avere una sola vita, non chiudere gli occhi con l’idea di una linea continua”…

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Le parole, e le cose, che contano

Maurizio Maggiani, Luigi Verdi, Sempre, Chiarelettere 2018 (pp. 176, euro 15)

Maurizio, lo scrittore non è credente (è un “anarco-mazziniano, se proprio deve darsi una definizione): “sono senza Dio – ribadisce -. Io non ce l’ho Dio. Ho due biciclette, non ho Dio”.

Ma fa lo stesso: “non sono cattolico, ma non per questo non ho diritto di accedere al sacro.” O ancora: “Io sono senza Dio, però sono cristiano”.
Luigi, il prete, è di quelli che non amano il catechismo: “non sopporto l’atteggiamento per cui a ogni domanda deve seguire una risposta. Sono convinto invece che in molte situazioni della vita sia importante abitare le domande, stare nella domanda”.
Aggiungi che lo scrittore, a detta del prete, “in quest’epoca di comunicazioni virtuali e frettolose, è un maestro del raccontare e l’incontro fra i due è assicurato. Di lì nasce un libro come questo, che “ha un precedente nella voce e nel racconto orale”. Un dialogo insomma. Il dialogo di due uomini che hanno fatto cammini diversi ma hanno una provenienza comune: la terra, le campagne e la loro miseria, ma anche l’attitudine che sapevano ispirare: la passione per la bellezza, la capacità di vederla ovunque, sempre. E sempre è la parola scritta su un muro che compare in copertina, a far da titolo al libro, perché “sempre è una culla, se ti metti lì dentro sei al sicuro. La parola scritta su quel muro rappresenta la materia dell’impossibile, la materia dall’assoluto, la materia dell’incommensurabile, la materia del sacro.” E’ così che procede questo libro, per illuminazioni, cui subentrano ragionamenti da cui germogliano altre illuminazioni, senza troppe preoccupazioni di coerenza: “Se hai fiducia in quello che dici, non è che devi spiegarlo troppo”, e dunque, “lettore, prendi tutto quello che abbiamo detto e dagli aria, fallo respirare, segui il suo respiro.” Segui i due amici come fossi seduto lì con loro – alla pieve di Romena, nel Casentino – convinto, come loro, che “un amico non ingabbia. Ti mette le ali”. Basta andargli dietro, e dire la tua: ne può venire un dialogo che è inventario delle parole che contano perché nominano le cose che contano, nella vita. Parole da trattare con rispetto, quale che sia il tuo mestiere: “Sarò sacrilego ma io quando la mattina mi metto al computer segno lo schermo [ci faccio il segno della croce] perché voglio avere coscienza che non sto scrivendo per me che magari ho l’ansia, io sto prendendo la parola che non è una mia proprietà. Io non sono padrone delle parole, sono ministro delle parole. Questa è la prima cosa. Un romanziere e un sacerdote devono segnarsi prima di cominciare la liturgia della parola, che sia un romanzo o che sia la lettura dei testi sacri.”

Non si può dar conto del divagare continuo di queste pagine. Solo pescare qualcuno dei passaggi che restano in mente a lettura conclusa: “Impara a lasciare le cose prima che le cose lascino te” (e viene in mente il Bianchi che abbiamo letto di recente, quello che parla di vecchiaia in La vita e i giorni, Il Mulino 2018). Oppure: “Preparare il cibo per offrirlo è un gesto da funzionario del sacro”, perché “il cibo è intimità, è qualcosa che diventa parte di te” e “Cristo – con l’Ultima cena – ha scelto proprio l’occasione migliore per chiudere.” L’Ultima cena, e tanti altri momenti del Vangelo: è anche una rilettura del Vangelo questo libro, una riappropriazione  dei suo momenti, dei suoi significati più umani.
E la morte? Non poteva certo mancare questa nel catalogo delle parole di Maggiani, che naturalmente ne trae una specie di racconto: “I malvagi spariscono, si disintegrano, si annullano nella spazzatura. I giusti vivranno per sempre. Guarda, Gigi, è morta la mamma di mia moglie, donna di carattere che te la raccomando, però evidentemente era una giusta perché dopo la sua morte io ho visto che cos’è la vita eterna. Ho visto la figlia appropriarsi della madre, si mette gli stessi vestiti, la ricorda nelle frasi, e lo fa in un  modo talmente familiare, in un modo talmente naturale che non è vero che non c’è più, c’è in mille cose, in mille occasioni della giornata.”
Non parlano, Maggiani e Verdi, di idee, ma di esperienze fatte. Esperienze vere però, perché occorre distinguere: “oggi in nome dell’esperienza hai mano libera per fare quello che vuoi. Sai, ho fatto un’esperienza del deserto, ho fatto un’esperienza con gli extracomunitari… tutta un’esperienza.” Come se la realtà fosse una “scena che attende il tuo ingresso”. Non è così: “tanto per cominciare chiedi permesso, prima di fare un’esperienza fermati un attimo e chiedi: permesso, posso?” Altrimenti “prendi e butti via, tocchi e non approfondisci mai niente…”.
Qualche mese fa Maggiani annunciava l’interruzione di Vivario, la sua rubrica sul Sole 24ore della domenica, dicendo che aveva da fare, doveva scrivere un libro: se è questo, ne valeva la pena.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora