Il dialogo a distanza fra due grandi musicisti

Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)

La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico”  – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.

Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una ‘critica poetante’ di Leopardi

Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)

C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.

Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”, “tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema, e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”. Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”, capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne che ritroviamo nello Zibaldone –, nella vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del loro destino di finitudine e infelicità.

Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione, fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo – una critica poetante. Una critica, cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con “un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.

Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo – alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.

Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”, innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale, “dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel che è perduto”.

Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta, commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena l’essenza stessa della poesia”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una sinistra ed enigmatica ‘montagna magica’

Claudio Morandini, Gli oscillanti, Bompiani 2019 (pp. 272, euro 17)

La montagna, e i montanari, anche qui, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma anche con questo romanzo, come con Neve cane piede, del 2015, non ci troviamo nella cornice ormai collaudata del giallo alpino. Anche in queste pagine ricorre l’alterità, vera o presunta, dei paesani d’alta quota, quel “Voialtri che state in città credete…” che ricorreva in Le pietre, pubblicato due anni fa, ma di nuovo il romanzo non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.

I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.

È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia, aliena com’è dalla supponenza accademica della sua docente e dalle ambizioni che tengono il fidanzato prigioniero dei suoi impegni universitari. Ed eccola allora, munita di taccuino, fogli pentagrammati e registratore, a indagare quei richiami “Di solito espressi in un codice composto da trilli, fischi, brevi grida monosillabiche, al più bisillabiche” che “servono a richiamare il gregge, o a sollecitare l’intervento dei cani”, ma che a Crottarda – secondo l’ipotesi di lavoro che la ricercatrice si propone di verificare – risultano particolarmente “originali e degni di ulteriore studio” perché rivolti anche ad altri pastori, sostituendo di fatto “il codice verbale tra una malga e l’altra”. La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi, come ci ricorda, in un esergo, l’autore (“Non scherzo affatto. Parlo sul serio. Sono venuto appositamente da lontano. Da Budapest, per cercare quelle vecchie canzoni che sono conosciute solo qui, da voi!”).

Senonché, a poco a poco emergono fra i crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili, comportamenti stravaganti e ambigui (in alcuni casi accostabili a quelli che incontriamo in un libro per ragazzi dello stesso Morandini sempre ambientato in montagna, Le maschere di Pocacosa, pubblicato l’anno scorso: “Nel piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e sinistre mascherature”). Se Bernadetta – la ragazza che, a suo modo, pretende di assumere il ruolo della guida per la forestiera – mette in campo atteggiamenti contraddittori e ambivalenti, i pastori che finalmente la protagonista incontra si rivelano “autori di imbrogli sonori, di contraffazioni da guitti”. Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti “questi poveri abitanti di Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria, e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sonno, tra lo sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza  che (…) riporta un senso tangibile di malinconia”. “Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’ oscillante finisco per sentirmi anch’io”. Destabilizzata, incerta, divisa fra l’interesse per quei richiami di pastori, che non sono forse che manifestazioni di una vena di umorismo beffardo, e il mistero inquietante delle voci lamentose che sembrano venire dalle doline, da un sottosuolo abitato da “omuncoli deformi” capaci di comporre una polifonia assordante alle orecchie della musicologa.

Resta sulle sue il prete che, a corto di spiegazioni, richiama leggende come quelle che parlano di “pietre che rotolano in salita e ti volano fin dentro casa” – un richiamo esplicito al precedente romanzo – e non sa alla fine che attribuire a un perdurante paganesimo le sinistre manifestazioni del carattere locale. Ma a dover alla fine ammettere la propria incapacità di comprendere è anche la studiosa che, sospettata di collusione con quelli di Autelor, finirà per essere invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa “montagna magica” che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima e che la seguono dall’infanzia. Ci tornerà dunque, e “presto, senza pensarci troppo”, perché “C’è ancora parecchio da fare laggiù”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La voce di un maestro

Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)

“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale: “Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di scorgere in minister anche se è ormai una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo, nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre più lasciato il posto agli “influencers, quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.

No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e scuotere la routine che ci avvolge”.

Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono questi gli scopi che il maestro Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare. Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”. Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui stesso parte del problema, non è sincero”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una vita vissuta pienamente

Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)

Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.

Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente, svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a mia anima (…).  Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque, inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te, nonostante tutto.

Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere, e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.

Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare falsata: la storia di Violette Touissant –  narrata con una certa linearità nella prima  parte, calata in un andirivieni di flashback, pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli, parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono ioLe foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta nella vita?”

A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ascoltare quel che i personaggi dicono

Alejandro Zambra, Storie di alberi e bonsai, Sellerio 2918 (pp. 144, euro 14)

“Il problema è proprio questo, che in questa storia non ci sono nemici”, avverte già alla seconda pagina l’autore, ma questo non significa che non vi accada nulla, perché “questa [che si racconta] non è una sera normale, almeno non ancora. Lui non è completamente sicuro che ci sarà un giorno dopo, perché Verónica non è tornata dalla lezione di disegno. Quando sarà tornata il romanzo sarà finito.”

Ecco: il gusto di guardare il proprio romanzo farsi, o meglio: la messa in scena del piacere – che, anche se a volte un po’ lezioso, si trasmette al lettore – di star a guardare quel che succede, ad ascoltare quel che i personaggi dicono.

Il tono non del narratore, insomma, ma di uno che racconta, sorridendo, il racconto di un altro. Facendone la sintesi tuttavia, perché non si vuol annoiare, non sia mai. Non divertire ad ogni costo, non evitare quindi qualche nota di riflessione, amara se occorre, ma non dilungarsi: “Alla fine lei muore e lui resta solo, anche se in realtà era rimasto solo diversi anni prima della morte di lei, Emilia. Supponiamo che lei si chiami o si chiamasse Emilia e lui si chiami, si chiamasse e continui a chiamarsi Julio. Julio ed Emilia. Alla fine Emilia muore e Julio non muore. Il resto è letteratura.”

E dunque, si può anche scrivere una “storia leggera che diventa pesante”: basta dirlo. Il lettore è avvertito e può comunque star tranquillo. Nessuna descrizione compiaciuta, nessun dialogo inconcludente. Solo l’essenziale: “Si ama per smettere di amare e si smette di amare per cominciare ad amare qualcun altro, o per rimanere soli per un po’ oppure per sempre. Questo è il dogma. L’unico dogma.”

Perché si leggeva, perché si legge

Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Einaudi 2019 (pp. XXX – 288, euro 30)

Uno scavo destinato agli studiosi della storia culturale europea? ai cultori dell’Umanesimo e del Rinascimento? Il libro di Lina Bolzoni è senz’altro anche questo, ma nello stesso tempo molto di più, per due ragioni. Innanzitutto le pratiche della lettura, gli scopi e i significati ad essa attribuiti “nei secoli in cui in Europa nasce il mondo moderno” risultano straordinariamente attuali; in secondo luogo, documentarsi, e interrogarsi, su di essi risponde a una domanda che altrettanto ci riguarda da vicino: è  “ormai inesorabilmente alle nostre spalle” quel “mondo in cui la lettura è esperienza comune e insieme del tutto intima e personale; una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si ridisegna il proprio io”? È dunque la “velocità del cambiamento” che ha investito anche le nostre consuetudini culturali a suscitare “l’idea (e il desiderio) di ripercorrere i grandi miti che il Rinascimento ha costruito intorno alla lettura, di guardare da vicino la rappresentazione di sé come lettori che troviamo” in quell’epoca. A partire da Petrarca e Boccaccio, passando per Machiavelli, Erasmo, Montaigne e arrivare a Tasso, il libro ci conduce a ripercorre “quel che ci dicono sulle loro esperienze di lettori”, sul loro rapporto con i libri – che spesso prefigura quello delineato da Benjamin, per il quale quello con i libri è “il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose” – e con quell’“autoritratto segreto” che è la propria biblioteca, valenza che ad essa continuano ad assegnare il capitano Nemo di Jules Verne come il Peter Kien di Elias Canetti, che in Autodafè diventa la sua biblioteca.

Attraversiamo così le pagine in cui Petrarca dice della sua insaziabilità in fatto di libri, del suo rapporto emotivo, fisico, con la lettura, un rapporto nel quale la lettura si salda con la scrittura, ma soprattutto consente una necessaria e salutare presa di distanza dalla città, dai suoi affanni, dallo spirito competitivo in essa dominante, o addirittura dalla rozzezza del mondo contemporaneo. È il tempo individuale, emancipato da quello sociale – potremmo dire – ad averla vinta quando è la lettura a riempire i giorni; è un tornare a far centro su di sé il beneficio ineguagliabile che ne può venire, con il vantaggio oltre tutto di non ritrovarsi soli. Il tema non è nuovo, come tanti motivi umanistici ha ascendenti nella tradizione del pensiero antico, ma è ripreso con convinzione, rivissuto in autori come Leon Battista Alberti, per il quale “la compagnia dei libri è il vero rimedio alla solitudine, ai mali che derivano dalla frequentazione degli uomini e dalla decadenza morale e politica”. La biblioteca appare allora “il nuovo eremo”, un rifugio popolato dei ritratti dei grandi autori con i quali si dialoga, un “teatro della lettura” – come lo “studiolo” di Federico da Montefeltro – che garantisce la trasmissione del sapere e dei valori fra le generazioni; come lo “scrittoio” nel quale Machiavelli si ritira la sera, o la torre in cui Montaigne compone i suoi Saggi.

Barriera contro la moltitudine e le passioni sarà anche per il Tasso, capace tuttavia di intravedere nella lettura anche pericoli come un’immedesimazione nei pensieri dell’autore tale da esserne invasi e perdere ogni orientamento fra le opinioni contrapposte con le quali i libri ci mettono in contatto. Ma è l’immagine del riparo da un “mondo ingiusto” a prevalere fra i doni della lettura. Lo penserà Ruskin, per il quale la lettura è “conversazione con libri-amici” e deve perciò essere diffusa attraverso biblioteche pubbliche, ma non Marcel Proust – che pure ne è l’ammirato traduttore – il quale “non accetta la concezione utilitaristica” dell’inglese: “l’idea della conversazione è per lui in conflitto con la condizione essenziale della lettura, che è la solitudine.” Una meravigliosa solitudine, appunto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Di che cosa è fatto un racconto

Roland Barthes, Sul racconto, Marietti 1820, 2019 (pp. 88; euro 8)

Fra l’introduzione di Paolo Fabbri, intervistatore dello studioso francese più di cinquant’anni fa – e oggi sintetico commentatore di quel testo brillantemente sopravvissuto ad un periodo in cui “la problematica narrativa è passata da un iniziale negazionismo, all’accettazione decerebrata dello storytelling – e la postfazione di Gianfranco Marrone, che “in questo straordinario documento” individua i nuclei che lo rendono tanto più attuale e incisiva “in un’epoca di restaurazione positivista”, leggiamo la lezione di Roland Barthes. Perché di una lezione di chiarezza esemplare si tratta, che prende le mosse da una necessità innegabile: “milioni e milioni di racconti” sono stati elaborati “in tutte le società umane”, “Il racconto è dovunque: in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le culture; si serve di qualunque sostanza – la parola scritta, parlata, l’immagine mobile e immobile”. Di qui il tentativo di “scegliere un modello di descrizione”, illustrandone i “ragionevoli” presupposti. Fra rimandi culturali illuminanti ed esempi capaci di accompagnare anche il lettore poco addentro in queste tematiche, Barthes spiega di che cos’è davvero fatto un racconto, a partire dalle sue unità insopprimibili, funzionali dunque all’intelligibilità della storia, secondo un criterio diverso da quello che ci è consueto e si concentra su comportamenti, sentimenti, monologhi interiori. Diverso ma in grado di considerare comunque le “espansioni”, quelle “unità complementari o riempitive – cioè – che pure compongono il racconto. Anche un racconto come Goldfinger, che – né più né meno che l’Odissea – non sfugge alla possibilità di essere analizzato sulla base della logica che governa la successione e i reciproci “inscatolamenti” delle sequenze delle sue unità essenziali, dei “nuclei” che lo fanno essere quel racconto e non un altro.

E dopo l’individuazione dei nuclei e delle loro relazioni, i personaggi, non come “essenze psicologiche” ma “in quanto partecipano a certe azioni”, sull’esempio di quelli individuati da Vladimir Propp, familiare a insegnanti e genitori curiosi di comprendere le fiabe che raccontavano iniziando con quell’immancabile “c’era una volta”, ossia con quel segnale – ci fa notare Barthes – che avvertiva che un racconto iniziava. E il contesto del racconto? la sua “origine sociale”, i suoi risvolti ideologici? Non si tratta di ignorarli, quanto piuttosto di riconoscervi i luoghi nei quali “il sistema del racconto tocca il mondo” – e il “mondo scritto” incontra il “mondo non scritto”, avrebbe forse detto Calvino. Sarebbe necessario che l’analisi semiologica giungesse a quella ideologica, ammette Barthes, non senza ricordare tuttavia, in conclusione, che “solo se il sistema ideologico passa attraverso il relais d’un sistema simbolico diventa opera letteraria, opera d’arte”.

Storie silenziose, tragiche, incancellabili

Majgull Axelsson, La tua vita e la mia, Iperborea 2019 (pp. 448, euro 18,50)

Per settant’anni, la protagonista di Io non mi chiamo Miriam – il romanzo della Axelsson pubblicato in Italia tre anni fa – ha tenuto nascosta dentro di sé la verità, e cinquanta ne sono passati prima che Märit torni là dove tutto era accaduto. Perché “certe storie sono semi a cui serve molto tempo per germogliare”, come la scrittrice svedese ammette nella nota finale.

Torna alla casa dei suoi, in occasione del settantesimo proprio e del gemello Jonas, ormai sepolto nel linguaggio incomprensibile di un uomo paralizzato dall’ictus. È con Kajsa, amica d’infanzia divenuta moglie del fratello, che si compie il gioco terribile di rivangare un passato che non è passato, che l’Altra non permette scivoli nell’oblio. L’Altra, la sorella morta durante il parto trigemellare da cui sono nati Jonas e Märit, ma che non ha mai cessato di abitare quest’ultima, di farle sentire la sua voce implacabile, sarcastica, ineludibile: “Infilata in un recesso profondo del mio cervello, finge di non esistere”, ma ciononostante solo a momenti cessa di “parassitare le mie capacità. E assillare, naturalmente: assillare, assillare, assillare”. Impedire, in primo luogo, che si cancelli la memoria di Lars, “Lars-lo-svitato”, il fratello che allora veniva definito “matto” e adesso si direbbe “disabile intellettivo con evidenti tratti autistici”. Mal tollerato in casa, dove solo la madre lo accudisce con amore, nasconde una grande sensibilità artistica: disegna, fa ritratti somiglianti di persone incontrate per caso, ma non sa avere rapporto con gli altri, e non è alieno da comportamenti violenti, aggressivi. La morte della madre segna il suo destino. Märit è l’unica a ritenerlo non un essere inferiore, ma diverso. Gli altri no: il suo posto è un ospedale psichiatrico, in “un’epoca che non capiva o non vedeva la propria malvagità”, un’epoca nella quale fra i medici “i più prestigiosi erano i neurochirurghi, seguiti a ruota dai cardiologi, dopodiché, in scala discendente, si arrivava al gradino più basso, quello degli sfortunati psichiatri”, ma ancora più in basso stavano “quegli insignificanti figuri che si occupavano dei dementi. E chi erano i dementi, allora? I poveri diavoli al gradino più basso di tutte le gerarchie”, “considerati ancora più infimi e indegni degli invalidi e degli alcolisti e dei lapponi e degli zingari”. Una Svezia sconosciuta emerge da queste pagine, un paese che solo nei primi anni sessanta scopre l’uso, accanto alle camicie di forza, di farmaci che permettono di affrontare un “demente scatenato mettendolo al tappeto invece di chiuderlo in una stanza vuota e poi sentirlo rimbalzare tra le pareti mentre ulula di disperazione o terrore”. Sarà questo il destino di Lars, e sarà Märit a scoprirne la condizione prima di ritrovarselo cadavere, segnato dalle botte ricevute, sul tavolo di dissezione, lei allieva di medicina che lo stesso giorno abbandonerà l’università, rinunciando a quello che fin dall’inizio i suoi avevano giudicato un lavoro non da donne. Perché quella è anche l’epoca in cui “non si può strillare e far chiasso e menar botte. Nemmeno quando se ne avrebbe voglia. Nemmeno se se ne avrebbe tutte le ragioni del mondo. Non se si nasce donne”. 

Ma se avesse potuto, si sarebbe occupata, lei, del fratello “matto”? L’Altra la mette alle strette, la obbliga a riconoscere che no, non se ne sarebbe occupata annullandosi in lui come faceva la madre: non l’avrebbe fatto perché voleva una vita sua. Se non di medico, di giornalista. Ed è quella che imboccherà, senza tuttavia poter sfuggire al ricordo della vita sua e della propria famiglia, “una delle tante storie silenziose, importantissime e inservibili che dobbiamo portarci dentro fino al giorno in cui moriremo”. Ed è appunto una serie ininterrotta di flash back, non di rado lunghi tanto da far dimenticare al lettore di esser stato trasportato nel passato, a fare questo romanzo: “Smettila, dice l’Altra nella mia testa. Dimentica, per il tuo stesso bene. Quella ormai è storia, storia antica! È passato più di mezzo secolo. Ma io non intendo dimenticare – afferma la protagonista, in un continuo gioco delle parti con il suo doppio –. E lei, la grande amministratrice di ricordi, non deve impicciarsi.” Vuole arrivare fino in fondo, Märit, non lasciare che si dissolva nessuno dei fili di cui è intessuta la storia tragica della sua famiglia. Solo allora, sarà possibile andarsene, senza più voltarsi indietro.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il taylorismo e i Moschettieri

Antonio Gramsci, Sherlock Holmes & Padre Brown. Note sul romanzo poliziesco, Marietti 1820, 2019 (pp. 80, euro 8)

“(…) tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni più immediate e meno complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche più che delle novelle poliziesche propriamente dette”. Potrebbe sembrare ma non è: Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, nell’ottobre del 1930 scrive alla cognata Tatiana Schucht – “Carissima Tania” – non per rimproverarle un’ingenuità di lettrice, ma al contrario per esprimerle “invidia” per la sua “capacità di fresco e schietto impressionismo”. Antonio legge diversamente, e  la stessa lettera lo dimostra: “Il padre Brown  è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei protestanti”, di cui lo Sherlock Holmes di Conan Doyle è l’esempio lampante, l’investigatore che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dal’esterno, basandosi (…) sull’induzione”, mentre il sacerdote detective di Chesterton si basa “sulla deduzione e sull’introspezione” e, pur così apparentemente dimesso e alieno da ogni carattere di eccezionalità, fa apparire Holmes “un ragazzetto pretenzioso”.  Ma, nella sostanza, i racconti di Padre Brown sono “fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana”; la sfida lanciata, con successo, dal detective cattolico contro quello protestante.

Senonché, i libri che Gramsci poteva leggere in carcere – fa notare Jean-Louis Ska in uno dei saggi che compaiono nel libro, accanto a quelli di Chiara Daniele e Alessandro Zaccuri – non erano una biblioteca fornita cui lui potesse accedere liberamente, e così non può che trascurare il fatto che mentre Conan Doyle usciva da una famiglia cattolica, Chesterton si era formato in ambiente anglicano e solo a quarantotto anni si sarebbe convertito al cattolicesimo. L’opposizione fra i due non è dunque di carattere religioso, ma culturale: “fra una cultura mediterranea più sensibile alle motivazioni morali e psicologiche e una cultura anglosassone più induttiva, pratica ed empirica”. Una divaricazione che ogni lettore di polizieschi conosce bene, sulla quale ha scritto parole inequivocabili Sciascia definendo Simenon, non lo scrittore che ama il puro gioco intellettuale ma quello che “vede” e che “ama” (Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018), capace quindi di superare l’alternativa che pure all’inizio gli si era posta, fra un dotto Jean incline al freddo ragionamento (Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018) e il ben più fortunato Maigret, fatto di tutt’altra pasta, che inaugura un profilo di poliziotto destinato a un successo tanto solido da arrivare al nostro Montalbano.  

Ci torna comunque sulla faccenda, Gramsci, nei suoi Quaderni, e a diverse riprese, andando tuttavia al di là del confronto fra le due figure di investigatore e ponendosi un problema di fondo: “perché è diffusa la letteratura poliziesca”, e più in generale “la letteratura non-artistica”, la letteratura spesso definita “popolare”? E la riposta è di quelle che fanno dei Quaderni dal carcere un’opera che non si è mai finito di consultare: la diffusione “sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano”, ma sulla distanza è il valore artistico di un testo a farsi valere, quel valore rinvenibile in Chesterton e assai meno in Conan Doyle. In quest’ultimo “c’è un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza. Oggi interessa di più l’apporto individuale dell’eroe, la tecnica ‘psichica’ in sé”. Un giudizio del tutto sottoscrivibile anche a distanza di decenni, ma che rivela la sua sorprendente attualità in una successiva annotazione che lo sviluppa, e che vale la pena di rileggere attentamente: “Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. (…) Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? (…) Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due”: 007 per tutti, dunque? Detective sempre più dotati di mentalità e bagaglio tecnologici ma pur sempre avventurieri? Attenzione però, raccomanda l’autore: “accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole ‘avventure’, ma certezza di vita”: “il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non ‘prevedibilità’ del domani, dalla precarietà della propria vita, cioè da un eccesso di ‘avventure’ probabili”. Avventure sì, allora, anche delle più torbide, truculente o catastrofiste che siano, purché… rassicurino.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una vita in fuga

Georges Simenon, Le persiane verdi, Adelphi 2018 (pp. 208, euro 19)

Alto, grosso, a suo modo carismatico: venuto dal nulla, Émile Maugin è diventato un grande attore, popolare al punto da essere riconosciuto per strada, nei ristoranti, nei caffè. La sera a recitare in palcoscenico, la mattina sul set cinematografico.

Simenon ce lo fa seguire in tutti i suoi movimenti, ma anche nei suoi pensieri, nelle sue idiosincrasie, nelle manifestazioni del suo caratteraccio: prepotente, insofferente, violento, quasi compiaciuto della propria protervia egocentrica. E al fondo di tutto: un’insoddisfazione corrosiva, che vino e cognac non riescono a sopire.

Non suscitano empatia il piacere della cattiveria, la brutalità dei comportamenti sessuali, l’instabilità esasperante di questo personaggio. Fino a che, ritiratosi da un giorno all’altro dalle scene, abbandonata Parigi e trasferitosi con la giovane moglie e la figlia (non sua) nel sud della Francia, cominciano ad affiorare in lui i segni di una debolezza che sempre più si rivela essere sempre stata il contraltare della sua mancanza di scrupoli: ha paura di morire, Maugin. Il medico gli ha detto che il suo cuore è quello di un settantacinquenne, non del sessantenne che è. Ma più che la morte in sé è una morte in solitudine che lo terrorizza. La moglie, la villa affittata dalle parti di Nizza, la bambina rappresentano una garanzia in questo senso, ma lui non sa realizzare il sogno di una casa in cui vivere in pace, una casa serena come quelle che si vedono, con le persiane verdi… Il suo destino è segnato: una banale ferita, superficiale ma non curata a dovere, sarà la causa della sua fine.

L’intero racconto appare allora una preparazione della scena finale: l’infezione si è diffusa, la morte è vicina, e tutto è filtrato dal punto di vista del protagonista, ormai perso nelle nebbie di uno stato quasi comatoso e ciononostante attraversato da un ossessivo arrovellarsi attorno alla propria vita, ai torti fatti, alle donne lasciate. Tutti, i genitori, i compagni d’infanzia, il maestro di scuola, le mogli e le amanti, i colleghi e gli amici, il prete e il dottore, tutti sono lì, al suo capezzale: se li vede intorno e sente di dovere a tutti loro, e a se stesso, una riposta, una giustificazione delle sue colpe, ma il bandolo di tutta l’ingarbugliata, confusa faccenda che è stata la sua vita non si lascia trovare. Finché un tratto capace di spiegare le sue scelte, il suo modo di stare al mondo, gli appare chiaro, inequivocabile: “Aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa?” “Aveva fame e scappava dalla fame, Viveva in mezzo al tanfo degli alberghi malfamati e scappava dal senso di nausea. Era scappato dal letto delle donne che aveva posseduto, perché erano solo donne e niente di più, e quando si ritrovava di nuovo solo beveva per scappare da se stesso.”  

La ripetizione è la colpa di Maugin, la ripetizione di un gesto di fuga che nell’imminenza della morte non può essere più rimesso in campo.

Le ultime pagine di questo romanzo risignificano le precedenti, e non possono non richiamare quelle, insuperate, dedicate da Tolstoj alla morte di Ivan Il’ic.

Una crudeltà quasi materna

Christophe Carlier, Saluti (poco) cordiali, Guanda 2019 (pp. 180, euro 17)

“Su questo sasso non succede niente di definitivo; qui la vita procede come in brutta copia, tracciata a casaccio, eliminando ogni giorno quella precedente, a pezzi e bocconi, fino alla fine. Sulla terraferma se uno persevera arriva da qualche parte. Ma su quest’isola che cosa si può fare, a parte girare a vuoto?”

Un’isola. Luogo che la letteratura privilegia quando – non importa quanto consapevolmente – intende analizzare, e dimostrare, la realtà del vivere collettivo ridotta al suo scheletro, ai suoi meccanismi elementari. E alla sua fragilità: è questo il carattere che la comunità lascia venire alla luce quando un tarlo inizia a divorala dall’interno. Cartoline, nient’altro che cartoline anonime che svelano, denunciano, alludono: le magagne che ogni famiglia, ogni abitante, aveva fino allora dissimulato, non possono più nascondersi sotto il velo delle chiacchiere quotidiane. Prima a uno poi all’altro e all’altro ancora – a tutti, c’è da temere – porterà la fatidica cartolina il vecchio postino Gabriel, addolorato per quel male di cui è contro la sua volontà latore. Ma lui deve. Deve continuare “a consegnare cartoline il cui autore non si è ancora palesato. Il male è fatto, il male è in atto, e nessuno ha modo di fermarlo”. Neanche la polizia, perché a ben vedere “non c’è materiale di indagine ma, piuttosto, per un trattatello: criminologia delle intenzioni, sociologia della noia”. 

Nessuno sfugge, se non – momentaneamente – alla cartolina, al senso di colpa: la situazione ricorda quella di un altro romanzo recente, le Case di vetro di Louise Penny (Einaudi 2019, in questi Note lo scorso 16 giugno). Dove però il mistero, svelandosi, innesca una nuova fase della storia. Non così nel romanzo di Carlier: anche quando sapremo chi è il personaggio che con le sue cartoline affligge il paese come fosse il suo “piccolo gregge inquieto”, la vicenda non si risolve. La “crudeltà quasi materna” del “corvo”, l’ignoto autore dei messaggi malevoli e inquietanti, fa precipitare la situazione secondo una logica implacabile, quella stessa per cui “nella vita, non si fa altro che andare verso se stessi”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Rischi e promesse

Gianfranco Pacchioni, L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019 (pp. 214, euro 15)

Uno scienziato, ma uno di quelli che tiene a farsi fa capire da tutti. L’idea che l’alta divulgazione sia appannaggio degli anglosassoni è smentita da un libro come questo: evoluzione, intelligenza artificiale, genetica, nanotecnlogie, neuroimmagini non restano terreno di enunciazioni che danno per scontato conoscenze che mediamente non abbiamo.

Una seconda premessa: a dispetto del titolo, non è un pessimismo radicale a connotare il discorso, ma non è neanche il facile (e obbligatorio) ottimismo dei nostri tempi. “Passi da gigante” è un’espressione ricorrente, a proposito della velocizzazione dell’innovazione registratasi negli ultimi decenni nei campi più diversi”, ma non si dà per scontato che l’innovazione sia di per sé progresso: può risolversi in uno “sviluppo forsennato delle tecnologie” e portare a risultati imprevisti e, a dir poco, inquietanti. Come quando due macchine intelligenti, Bob e Alice, programmate per sostenere trattative commerciali, a un certo punto si sono messe parlare fra loro in un linguaggio incomprensibile, fatto di parole, sì, ma disposte in sequenze senza senso. Sennonché – questo il fatto allarmante – il linguaggio inventato dai due dispositivi, e trasparente a loro soltanto, ha permesso di concludere la trattativa con successo! Macchine capaci di “auto apprendere più velocemente degli scienziati informatici, con risultati devastanti per la nostra specie. Forse – avverte l’autore – sono scenari eccessivamente catastrofisti, magari la superintelligenza non arriverà mai. Ma non ci conterei troppo.” Anche in altre occasioni la conclusione resta volutamente aperta, come a dire al lettore che sta a lui, sulla base di altre sue conoscenze, delle sue esperienze, della scala di valori che riconosce, trarre un giudizio. Un equilibrio di fondo, condito di ironia, è il tono che ci viene proposto, e non potrebbe essere diversamente dal momento che ogni capitolo è introdotto da un racconto in cui si è previsto con largo anticipo quanto avviene oggi: un racconto di Primo Levi, il Levi chimico, l’uomo di scienza fantasioso e lo scrittore lucido delle Storie naturali, di Vizio di forma e del Sistema periodico. Un atteggiamento non demonizzante ma capace di prender atto delle possibili derive – tendenzialmente in atto o comunque possibili – dell’innovazione tecnologica si direbbe possibile, insomma, solo là dove le “due culture” sappiano dialogare. Come in Levi, e in Pacchioni, appunto. Capaci di metterci di fronte alla prospettiva di “scenari del tutto imprevedibili”, abitati da “esseri, non necessariamente integralmente biologici, in parte umani e in parte artificiali, più intelligenti di noi sapiens.” Ci arriveremo fra venti o trent’anni, secondo alcuni, convinti che sarà “uno dei momenti più promettenti per la storia dell’umanità”. Ma ci sono altri per i quali “potrebbe essere uno dei più pericolosi”. Ai posteri l’ardua sentenza, si sarebbe detto in passato, ma non oggi, perché – si chiedeva Primo Levi – “ci saranno storici futuri, diciamo nel prossimo secolo [questo, n.d.r.]? Non è del tutto certo: l’umanità potrebbe aver perduto ogni interesse per il passato, occupata come sarà a dipanare il gomitolo del futuro; o perduto il gusto per le opere dello spirito in generale, essendo intesa unicamente a sopravvivere; o cessato di esistere.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una domanda ineludibile, una scelta inaggirabile

Federico Pennestrì, Eppur si muore. Vivere di più o vivere meglio?, Mursia 2019 (pp. 148, euro 14)

Un filosofo che parla ai medici, ma che i medici – e i loro pazienti – li conosce bene: è un punto di vista privilegiato quello da cui l’autore guarda alla cura della salute nel mondo contemporaneo. “Vivere costantemente a contatto con la medicina senza praticarla in prima persona – dichiara infatti – mi permette di conoscerla e valutarla con obiettività, cercando fuori le soluzioni che essa non può trovare al proprio interno”, e tenendo sempre presente un presupposto di fondo: “la medicina è qualcosa di più delle conoscenze e delle tecniche che la sottendono”.

Presupposto di cui i pazienti sembrano consapevoli quando lamentano il ridursi del numero dei “medici che ci conoscono di persona”, di quei medici di famiglia – dei quali un politico di primo piano ha recentemente decretato l’inevitabile, se non auspicabile, scomparsa – che non hanno dimenticato quel che Ippocrate sosteneva, ossia che “per effettuare una diagnosi è più utile conoscere il paziente che la sua malattia”, ma non per questo si collocano in contrapposizione polemica con i colleghi specialisti, essendo “il medico di famiglia il miglior portinaio possibile (gatekeeper) per aprire le porte degli edifici della specializzazione”.  Edifici nei quali tuttavia i medici appaiono spesso – agli occhi dei pazienti – inaccessibili, a livello sia comunicativo, sia logistico, sia economico”.

E i medici? Anche loro frustrati: dall’insufficienza delle risorse, dai ritmi lavorativi – e dalla collocazione professionale, possiamo aggiungere, che nelle cliniche private ne fanno, come in molti altri settori, partite Iva per alcuni aspetti fra loro in competizione? –, ma anche dall’intolleranza di pazienti “pretenziosi e aggressivi”, “pronti a denunciare il medico”, “informatissimi sui propri diritti e disinformatissimi sui propri doveri”, pazienti che – in un clima di generale sottovalutazione, se non di disprezzo, delle  competenze – “pretendono di conoscere la materia meglio di chi la esercita”.

Senonché, su questo come a proposito di altri nodi cruciali, l’autore sa esercitare il suo sguardo esterno, obiettivo: “Il disagio del medico – precisa – e quello del paziente non sono espressione di due realtà che configgono, ma sono due aspetti dello stesso disagio.” Perché occorre comprendere come la medicina “sia nata ed evolva attraverso lo scambio reciproco con la stessa cultura in cui si radica”, e quando questa cultura esalta, anziché problematizzare, un tratto – probabilmente ineliminabile – dell’animo umano consistente nel rifiuto del limite, della fine, della morte, accade che si chieda alla medicina quel che non può dare e che la medicina per parte sua si faccia “soluzione, seduzione, promessa e illusione”. Ecco allora che nonostante gli indubbi – e qui ricorrentemente e documentatamente richiamati – progressi della medicina, i malati aumentano.

Com’è possibile?  Per diverse ragioni: in primo luogo perché “nuove malattie – croniche, soprattutto – si sono affermate per il solo fatto che viviamo di più”, in secondo per via della medicalizzazione di stati come l’infelicità e la tristezza – e la vecchiaia stessa? – senza dimenticare la tendenza crescente a un consumismo di nuovo stampo, quello di “prestazioni diagnostiche, farmacologiche e di controllo”.

Delineato così il quadro, non corre il rischio di suonare moraleggiante la domanda di fondo: “Ha senso posticipare la morte al prezzo di aumentare gli anni in cui ci sentiamo sotto tiro?” Ha senso negare la verità sostanziale che il titolo evidenzia richiamando l’affermazione attribuita a Galileo, “simbolo della resistenza della scienza contro la superstizione”?

Passando attraverso approfondimenti essenziali (medicina e follia, ruolo esercitato dalle condizioni economiche e dalle disuguaglianze, fenomeni come la “resistenza vaccinale”), si giunge alle conclusioni. È un cambio culturale quello che appare indispensabile: più della ricerca della soluzione “per morire dopo”, è quella “per vivere meglio prima” che occorre mettere in primo piano, e conseguentemente aver di mira “un utilizzo appropriato della medicina, rivolto non alla negazione ostinata della morte fisica, ma ad agire per preservare il più possibile” il senso, e la qualità, della vita. E quando la vecchiaia arriva, non può essere solo la famiglia a provvedere. Occorrono “politiche di presa in carico organiche, personalizzate, multidisciplinari e continuative, a prevenire la situazione in cui “l’anziano è tecnicamente assistito ma moralmente parcheggiato”. Politiche che non renderanno comunque mai superflua la necessità che il sistema sanitario si ponga delle priorità, stabilendo “chi curare, che cosa curare e fino a che punto”. Necessità che trova il suo corrispettivo in quella, pure inderogabile, di “educare non solo alla salute”, ma anche “al consumo di prestazioni sanitarie”.

L’aura del luogo

Paolo Pagani, I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, Neri Pozza (pp. 368, euro 13,50)

“Non è possibile separare l’esposizione del pensiero di Wittgenstein dal racconto della sua esistenza”, e questo vale anche per gli altri autori presi in considerazione da questo “itinerario geografico e mentale insieme”. Una ricognizione storica, topografica e passionale” che non si limita tuttavia a schierarsi conto chi – con buona pace di Proust – sottovaluta o nega addirittura il nesso fra opera e biografia: un nesso altrettanto decisivo è quello che lega il pensiero e il luogo, “l’ambiente in cui le idee prendono forma”. Per cui non è un semplice frutto della curiosità “Sapere che cosa si vede da certe finestre” delle case abitate dall’autore del Tractatus, “capire tutte le case spoglie di Ludwig, i suoi alloggi di fortuna, le scelte di eremitaggio”; oppure “girovagare tra gli ambienti che hanno fatto da quinta allo scrivere e al leggere” di Thomas Mann, “per cercare tracce, in quei luoghi, del suo pensare laico; della storia del suo tempo; delle sue idee sul futuro; della sua etica e della sua estetica”. “Perché c’è un’aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare”, “una forza gravitazionale silenziosa e prepotente” cui non si deve resistere. Così avviene se si raggiunge la Hütte, la baita nella quale Heidegger amò abitare per lunghi periodi, e ci si ferma a guardare silenziosi “La radura placida e gli alberi immobili, lo stesso panorama che Heidegger osservava scrivendo, che trattengono l’identica energia evocativa, conservata intatta in una ieratica semplicità per quasi un secolo”: quel rifugio, quelle “mura domestiche”, “sono parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto”. È un “legame ontologico” quello che lega il luogo all’opera: “geografia che mostra a se stessa un pensiero e pensiero allacciato a una zolla geografica; sfondo materiale di un filosofare che sa custodire e dire un misterioso sapere”.

Non diversamente, la laboriosa elaborazione della teoria evoluzionistica sembra rappresentarsi nel “sentiero sabbioso che il re dei naturalisti usava da mezzogiorno in punto come thinking pad, o percorso personale di meditazione”. “Pensava camminando”, Charles Darwin, lungo quel “sentiero che correva intorno a un boschetto che aveva piantato con le sue mani; e sembrava fosse sempre un percorso lunghissimo, partendo da casa”.

Persino quando il luogo è mutato vale la pena visitarlo: la casa natale di Spinoza, ad Amsterdam, non c’è più, ma quell’assenza sembra dire delle peregrinazioni cui la sua famiglia fu costretta come della proscrizione che colpì lui stesso, che ci appare nel monumento che sorge non distante, “lo Spinoza di bronzo (che) luccica come un simbolo indiscusso”.

Non solo di luoghi parla tuttavia questo libro: oltre che trattare di “Dove hanno speso le loro esistenze e come”, l’autore si diffonde su che “cosa ci hanno detto, dove giacciono, perché ricordarli”: Spinoza e Cartesio, Leibniz e Newton, Darwin e Marx, Wittgenstein, Heidegger e Arendt, Keynes e Mann. E di molti ci resta memoria, oltre che di un luogo privilegiato, di una cosa che sembra far corpo con il personaggio, dal celebre melo di Newton alla scrivania su cui Mann scrisse, sempre, in tutte e dieci le case che abitò.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ci si nasconde, iniziando così a scomparire

Paola Baratto, Lascio che l’ombra, Manni 2019 (pp. 125, euro 14)

Dopo aver letto, a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per dibattito.

La cultura di Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione, non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere, già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia. Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo quelli che amano esclusivamente intrattenere ed essere intrattenuti, ma anche coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e non si può chiamare altrimenti, che pensiero critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso, indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli scenari presenti».

Un intellettuale del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare, tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita l’ormai attempato professor Console.

Sono loro due a cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza, nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma di affascinare. Senonché, ancor prima dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva, lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere. Meglio: di sparire.

«Giorno dopo giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene, perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella  ubiquitaria e pervasiva dei social; di conservare quel quid che non accetta di sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si scompare anche ai propri occhi».

Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di Giardini d’inverno e Tra nevi ingenue.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il piacere di leggere

Eric-Emmanuel Schmitt, La vendetta del perdono, edizioni e/o 2018 (pp. 253, euro 18)

Il piacere di leggere, quello che abbiamo conosciuto da bambini, appena abbiamo cominciato a saperlo fare; ma soprattutto dopo, da adolescenti, quando poveri di riferimenti e liberi dall’obbligo di giudicare, ci affidavamo solo a quello. Al piacere di passare da una pagina all’altra trascinati da quella forza indefinibile che parole e avvenimenti sanno intrecciare in una trama che coinvolge e diverte, commuove e, perché no, rappresenta in una storia i lati migliori degli umani.

Tutto qui: Schmitt sa coltivare questo piacere. Nello scriverli questi racconti, innanzitutto, lo si intuisce. Sembra lì a leggere con noi la vicenda delle due gemelle, Caino e Abele al femminile (con finale a sorpresa), o la storia eterna del conflitto fra amore assoluto e razionalità cinica in Madamina Butterfly; così come lo vediamo rendere l’originale omaggio a Saint-Exupéry del quarto racconto, ma soprattutto mantenere la coerenza, ferrea senza perdere in un’umanità, della protagonista del terzo, che dà il titolo alla raccolta.

“La maledizione di dover raccontare”

Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi 2018 (pp. 195, euro 17,50 )

“Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde con quello della finzione è un gioco molto rischioso”, osserva l’autore, ammettendo che si tratta di “un pericolo che conosc(e) fin troppo bene”. Ma, del resto, attenersi ai fatti non è una soluzione, perché “quando indaghiamo un fatto lo troviamo già aggiustato” e “a noi non resta che fare i conti con qualcosa già diventato memoria, verità plasmata, aggiustata”. Il che non impedisce, anzi: comporta necessariamente, che l’autore si comprometta con ciò che vorrebbe narrare: “Il problema – tuttavia – non è la compromissione in sé, che è inevitabile e per molti versi irrinunciabile e fruttuosa. Il problema sono la natura e il livello di questa compromissione, ovvero se siamo in grado di gestirla, di evitare che ci travolga e che prevalga in noi lo spirito di vendetta”, dal momento che “qualunque racconto implica anche un intento vendicativo di qualche tipo o almeno risarcitorio.” Di qui, la “maledizione di dover raccontare”, una maledizione che non colpisce solo l’autore o, più in generale, gli scrittori, ma ha assunto il carattere di una malattia epidemica, la “malattia del nostro tempo: tutto viene convertito in racconto o comunque pensato in termini narrativi, anche fuori dalla letteratura (…). Nel parlare corrente narrazione è diventato ormai sinonimo di dire.”

La riflessione sulla scrittura, su quella romanzesca in particolare, percorre il racconto che, nonostante la dichiarata consapevolezza della rischiosità del gioco della finzione sembra davvero travolgere l’autore. E non importa quanto lui ne sembri soddisfatto. La messa in scena dell’autore da parte dell’autore stesso, il fare del gioco della scrittura l’oggetto della scrittura stessa non sono di per sé stucchevoli, ma forse occorre aver la leggerezza, il sorvegliatissimo senso della misura del calviniano viaggiatore di una notte d’inverno…  La leggerezza e la misura necessarie per farsi seguire dal lettore, per contagiarlo del piacere che l’esperimento offre allo scrittore, e non ci sono scorciatoie in questo: non basta, all’inizio di un nuovo capitolo, a metà del romanzo, avvertire chi legge che “Semmai non fosse ancora evidente, la voce di questo libro non è più la stessa”, e di affiancare al personaggio alter ego dell’autore l’autore stesso intrecciandone vicenda e discorsi con la storia di Michelangelo Merisi. Nulla da obiettare alla forma del romanzo-saggio, ma qui il romanzo e il saggio sembra, soprattutto nell’ultima parte, che se ne vadano ognuno per la sua strada, proponendo una giustapposizione più che un intreccio, un continuo cambio di registro più che una commistione suggestiva dei piani del discorso. È il postmoderno, bellezza, qualcuno potrebbe obiettare – Tommaso Pincio è pseudonimo ricalcato, non a caso, sul nome di uno degli alfieri del postmoderno, Thomas Pinchon –, ma la constatazione sarebbe lontana dal richiamare motivi di un piacere della lettura che fosse prima sfuggito.

Eppure.

Eppure, arrivato alla fine del romanzo, alcuni tratti dei personaggi restano in mente: dalla malinconia, il cui marchio si riassume nello scoprirsi sempre, fatalmente, spettatori di se stessi, alla connessa mancanza del  “dono di saper vivere”, del non sapersi muovere nella vita come pesci nell’acqua, tendendo invece a osservarsi, senza mai coincidere con la vita.
La vita. La vita e la sua “architettura” che “si fonda sulle attese”: “Il sipario si alza sui beati anni in cui ti balocchi con quel che farai da grande. Poi, a questa prima e dolcemente tragica fase – perché non c’è infanzia, credo, che non riveli in sé un che di tragico  – subentra la seconda, in cui, non più bambino ma comunque giovane, non smetti di crogiolarti, convinto che il meglio debba ancora venire. Infine (…) la fase nella quale, scoperto che il momento in cui diventare grandi è trascorso da un pezzo e non si ha più niente da attendere, si depongono le armi e l’eventualità della morte appare non dico gradita ma almeno una crudeltà non così priva di giustificazioni”.
Passaggio come questo non riscattano forse l’intero romanzo, ma impediscono di abbandonarne la lettura, e la perseveranza è premiata con altre pagine che viene voglia di trascrivere, come quella sul “tempo in cui viviamo”, cui si attribuisce “la semplice forma di una linea retta lungo la quale lo scorrere degli attimi si muove senza inversioni o tentennamenti in un’unica direzione, dal passato verso il futuro”, con la conseguenza che “la forma del presente sarà sempre un punto, una circonferenza di colore nero e dimensioni astratte, un pallino ideale e assoluto simile a quelli che poniamo al termine di ogni frase. È mai possibile?, dico io. Una dimensione misteriosissima qual è il tempo ridotta a una sequela di insulsi pallini che procedono in fila come stupidi indiani?” No, non è, non può essere così: “il tempo, questo  sconosciuto” è una y. “Ogni attimo, ogni singolo istante della vostra esistenza ha questa forma, che è poi la forma di un bivio, di una via che si divide in due (…). Uno dei due bracci, non importa quale, tende al buio, a ciò che in un dato momento non è. L’altro conduce (…) dove lo stesso momento di cui sopra si distende per rischiararsi di luce propria, illuminandosi per quel che è, per come accade. (…) Una cosa o accade o non accade. Unite l’accadimento e il suo contrario all’incertezza che li precede e avrete i tre segmenti di cui è composto ogni singolo attimo. Il tempo non è che l’eterno perpetuarsi di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato”.

Uno Zibaldone di paure

Silvio Perrella, Io ho paura, Neri Pozza 2018 (pp. 124, euro 15)

“Una collezione di pensieri raccontati”. O anche: “uno Zibaldone di paure”, il “diario di un mese trascorso in un luogo di paure naturali”. L’autore stesso tenta ripetutamente di definire il libro che sta scrivendo, che ha scritto: ha promesso all’editore un libro sulla paura, sulle paure anzi, e per farlo è andato in un luogo di mare dove sopravvivono, appunto, “paure naturali”, quelle che un oggetto ce l’hanno, un oggetto che si può nominare, e che quindi i pescatori del posto non dimenticano ma sanno “celebrare com’è giusto che sia”. Non negare, non rimuovere. Anzi: le paure fan parte della vita, se la vita non è stata privata dell’invisibile. Dove tutto pretende di essere visibile, invece, e si dice che non si più paura, di niente, le paure dilagano, distruggono le relazioni, ci rendono soli, e sudditi. Sono le paure che non hanno nome, solo un acronimo se mai (AIDS, ISIS) e quando un nome parrebbero averlo è come non l’avessero: Migranti non evoca persone, ma solo un pericolo. Una paura appunto, una di quelle “fabbricate”. Perché la paura si può fabbricare su scala industriale: “Non c’è oggi fabbrica più fiorente”. Non occorre pensare a un maligno Grande Fratello: basta considerare che le paure, nate da fonti diverse e scoordinate, alla fine “tendono a fare sistema”, e a insinuare un’inquietudine incomunicabile. Qualcosa di indefinibile che “Sta a cuore a io e sta a cuore a tu. Ma non riusciamo a farlo stare a cuore a noi.”

Il luogo, fra nuotate e racconti dei locali, fa emergere “il tempo dell’oggi” nella sua insensatezza fatta di paure. Paure contro le quali occorrerebbe “una presa d’atto delle nostre ignoranze”, terreno fertile dei fabbricanti di paure: occorrerebbe “una messa in comune di quel che non sappiamo, e un tentativo di costruire conoscenze condivise. I tempi del mondo sono così tanti, anche in epoca di cosiddetta globalizzazione, e sarebbe importante fare studi di polifonia. Oggi bisognerebbe diffondere Bach; fare ascoltare le sue fughe, quel modo di intrecciare le voci mettendole in rapporto. Senza che l’una debba prevalere sull’altra.”
Un romanzo? Un saggio?
Un libro senza una forma precisa: come le paure di cui vuole parlare.

Giganti incurabili

Luigi Guarnieri, Forsennatamente. Mr Foscolo, La nave di Teseo 2018 (pp. 205, euro 17)

Gabriele Dadati, L’ultima notte di Canova, Baldini+Castoldi 2018 (pp. 343, euro 18)

Simona Baldelli, L’ultimo spartito di Rossini, Piemme 2018 (pp. 381, euro 18,50)

Che fosse antipatico di suo, pare accertato, e il giudizio era assodato anche prima che Gadda facesse del “vispo Nicoletto” il bersaglio del suo sarcasmo in Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (Adelphi 2015), attribuendo al poeta “una prosopopea insopportabile e una cialtroneria da intrigante mandrillo”.

Non pare discostarsi da questo atteggiamento Luigi Guarnieri, che del trentottenne Niccolò Foscolo, detto Ugo, racconta gli anni dell’esilio a Londra: “attore istrionico e grande oratore”, “incanta e stupisce con la sua forsennata vivacità”; “agghindato alla moda del periodo come un dandy”, “ai ricevimenti e ai balli è un figura che s’impone: circondato dall’aureola della celebrità letteraria, scandaloso come lo saranno solo le rockstar negli anni Settanta del Ventesimo secolo, autore di un patetico romanzo di successo su un amore infelice [Le ultime lettere di Jacopo Ortis], è carismatico nel suo soprabito di panno azzurro coi bottoni dorati, il cappello di pelo di castoro…”.

Ma è, e sempre più si rivelerà, solo apparenza: l’uomo è malandato fisicamente, spendaccione e assediato dai debiti (fino a conoscere la prigione per insolvenza), impacciato dal suo poco e cattivo inglese, e dunque non può stupire che il suo ingegno sia “arrugginito dalle infermità e dai guai”. Nonostante la sua sgradevolezza è comunque per la sua sorte che il grand’uomo sollecita una solidale compassione nel lettore, dunque? No, al contrario: più la storia delle sue disgrazie e dei suoi mali procede, più si ha la sensazione che il racconto sottintenda un implicito ben gli sta. E non attenuano certo il giudizio i frequenti flash back che completano la biografia risalendo agli anni precedenti: Foscolo è da sempre sopra le righe, pieno di se stesso, autore di innumerevoli quanto “esaltate” lettere d’amore, profittatore e ambiguo nei rapporti sentimentali come in quelli con la figlia naturale e con i familiari lontani e sempre vanamente in attesa di un suo aiuto.

Com’è possibile che un uomo simile scriva quelli che Guarnieri stesso definisce “assoluti capolavori”, come Alla sera e A Zacinto? La domanda non si pone, la questione del rapporto fra l’uomo e la sua opera non pare proprio tra quelle che interessino Luigi Guarnieri: quello che si potrebbe ritenere un nodo ineludibile per chi scrive della vita di un artista pare ignorato. La biografia conferma lo stereotipo, e questo pare bastare. All’autore, quantomeno.

Diverso il risultato cui giunge un altro romanzo pure dedicato alla fine di un grande creatore. L’Antonio Canova che emerge dalle pagine di Dadati non è quello che avevamo già in mente. È un uomo che, giunto alle sue ultime ore, risponde al desiderio estremo di evocare il proprio passato e giudicare il proprio operato, senza paura del dolore che gliene verrà. I flash back, qui, sono conseguenza di questa volontà, e dunque risultano narrativamente necessari: ne escono scene vive dell’età napoleonica, personaggi non schiacciati sull’immagine codificata. A cominciare da Napoleone, protagonista della storia – insieme alla sua seconda consorte, Maria Luisa – al pari di Canova. L’uno e l’altro, l’imperatore e l’artista, accomunati dal destino di figli orfani del padre e di uomini che non avranno figli: “alberi senza radici, alberi senza fronde. In questo, dunque, da considerare fratelli”.

Uno sguardo disincantato e risolto sulla vita e sugli uomini attraversa l’intera narrazione, giungendo alla conclusione che “occorre imparare questo: ad aprire le mani, e lasciar andare i propri morti. Non bisogna trattenerli, dopo che hanno smesso di far parte di questo mondo, perché se no si vive in perenne tristezza.”

Romanzi biografici come questo sembrano smentire la convinzione di Borges secondo la quale “che un individuo voglia risvegliare in un altro individuo ricordi che non appartennero che ad un terzo, è un paradosso evidente.” Per cui, “realizzare in tutta tranquillità questo paradosso, (sarebbe) l’innocente volontà di ogni biografia.”

Lo stesso si potrebbe dire di un terzo romanzo nel quale è un musicista a vivere l’ultima stagione della propria vita, Gioacchino Rossini, evocato sulla base di una documentazione rigorosa e felicemente tradotta in racconto, secondo un metodo che l’autrice stessa richiama nella nota finale: “scrivere un romanzo, benché storico, non è solo inanellare aneddoti. Occorre trovare una crepa in cui infilarsi e, pur nel rispetto del personaggio, introdurre la propria voce”. La voce del narratore che cerca di stabilire un nesso credibile fra la vicenda umana e la produzione artistica dell’uomo: detto in altre parole, da dove viene la vocazione a divertire di Rossini, e da dove la sua perenne fragilità, la sua paura di veder crollare da un momento all’altro la sua straordinaria popolarità, le sue cadute frequenti nella depressione, in certi periodi non attenuata neanche dal gusto smodato della tavola? È già alla sua prima esibizione al fianco della mamma, cantante per necessità, che il settenne Gioacchino capisce che il pubblico vuole vedere gente allegra sul palcoscenico: lui “li avrebbe accontentati. Mai avrebbero saputo della carestia in casa, la tristezza della tavola vuota, del padre in galera e le mani della madre bucate dall’ago. (…) Avrebbe sorriso, sempre. A costo di fare la scimmia ammaestrata”. Ma lui è ben altro. Il Mozart e il Beethoven che escono dai quadri appesi alle pareti della sua camera di malato terminale dialogano con Rossini, il musicista che richiesto di dire chi fosse il più grande musicista di tutti i tempi rispose senza esitare: Beethoven, e alla sorpresa di chi gli aveva posto la domanda, al corrente come tutti della sua predilezione per Mozart aveva risposto, serafico: Mozart non è un musicista, Mozart è la musica.

Una parentesi fra tutte le altre relazioni

Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi 2019 (pp. 124, euro 12)

Che cos’è l’amicizia, innanzitutto: la sua indefinibilità, la sua “inafferrabilità” e insieme gli aspetti che possiamo ricavare dall’esperienza che ne facciamo percorrono le pagine del libro. Sin dall’inizio: “un’attrazione, un legame più o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un fuori salutare, un potersi chiamare fuori ogni tanto, una valvola di sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile (…) apparentemente un fatto “meno importante” (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro a questa svalutazione, che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una strategia interessante”, implicita, inconsapevole ma decisiva: “resistere alla famelica intrusività della società contemporanea.” La colonizzazione degli spazi informali che pratica ad esempio Facebook: il desiderio di amicizia non è l’amicizia, lo diceva già Aristotele e quella che ci offre il social è una “solitudine affollata”, frutto di “puro latrocinio”. Facebook “ci espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione quotidiana della nostra società intima e allargata.” Il che risulta tanto più grave se consideriamo che l’amicizia è “il campo costituente” delle moderne democrazie, “proprio perché precede ed è la condizione sine qua non del legame libero tra i cittadini”. Libero, come l’amicizia appunto, che non è tale se non è revocabile, in ogni momento, per le più diverse ragioni. Non garanzia ma reciprocità: le due caratteristiche essenziali di un legame, soprattutto nelle società occidentali di oggi, più forte della parentela spesso: “La relazione tra amici è più intima di quella che c’è tra fratelli”, secondo un detto cinese: “perciò gli amici si chiamano tra loro fratelli e i più intimi tra i fratelli sono amici.”

Osservazioni calzanti, che fanno riflettere, ma anche racconto di un sentimento che le parole fanno fatica a circoscrivere. E allora occorrono le metafore: “L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune”, “un ambito dentro il quale il mondo può essere commentato”, magari cazzeggiando, ricorrendo a “quel parlare che è un gioco in sé”, il segno di una complicità, l’esito felice di una scommessa “rispetto all’idea che in fin dei conti siamo soli al mondo”, la conferma della possibilità di una relazione capace persino di travalicare la morte: “Cosa importa che Čechov sia morto? Per l’effetto che egli ha su di me conta molto poco. E questo vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo condiviso.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.