Quando lo scrittore si fa critico

Gianni Celati, Narrative in fuga, Quodlibet Compagnia Extra 2019 (pp. 342, euro 18)

Testi critici che assumono a tratti l’andamento del racconto, una saggistica che si fa narrativa senza mancare il suo obiettivo critico: solo uno scrittore come Celati, traduttore oltretutto (di Céline come di Joyce, di Swift e di tanti altri), può scrivere in questo modo dei suoi autori. Una scrittura che appare il seguito naturale di un incontro con gli autori maturato nella lettura e nella rilettura. Più giovane di Calvino, Celati ne riprende il modo di parlare delle opere lette, e rilette. Forse anche in forza del legane intellettuale e umano che li legava (ampiamente documentato nelle note contenute nel Meridiano che raccoglie gli scritti di Celati, pubblicato nel 2016).

Scorriamo alcuni passi nei quali appare evidente quel di più che uno scrittore sa mettere nei suoi commenti, riuscendo ad arrivare fulmineamente, con pochi tratti, sintetici ed esatti, a delineare personaggi e autori: prerogativa del Tom Sawyer di Mark Twain non è una generica arte di arrangiarsi, ma una vera e propria “alleanza con il mondo”; il narrare di Jack London ha “la fluidità del racconto panoramico – il racconto immerso in un tempo vago e dilatato, che attraversa rapidamente gli eventi. È il modo più semplice di narrare: quello dell’epica e delle fiabe, senza elaborate costruzioni, senza presentazioni psicologiche”; “L’improvvisazione è il metodo compositivo adottato da Stendhal in tutti i suoi libri, senza piani di lavoro preordinati (…) Si tratta di affidarsi a un estro estemporaneo, irriflesso e non programmabile, in cui la rapidità di scrittura serve ad evitare quel congelamento delle parole che nasce da una dissociazione tra il pensiero e la cosa che si sta scrivendo”, e si cita a conferma lo stesso Stendhal: “Non riesco a fare piani di lavoro se non dopo, analizzando quello che ho trovato. Il piano di lavoro fatto in anticipo mi agghiaccia. (…) Io ho sempre scritto come Rossini scrive la sua musica…”; “La cura céliniana consiste nel rompere la concatenazione scontata tra le frasi, attraverso l’uso dei tre puntini che indicano le pause ritmiche in cui la voce rimane sospesa. (…) Céline elabora un modo di scrivere dove la scrittura diventa una specie di spartito, capace di notare ritmi e tonalità delle parole. (…) Se confrontiamo questa lingua con quella standard dei libri di successo, viene da pensare che gli attuali libri di successo corrispondano ai cosiddetti non luoghi (luoghi uguali in qualsiasi parte del mondo si trovino), mentre quelli di Céline corrispondono a un’isola oceanica poco accessibile, quasi disabitata”; “Swift scrive come un alieno che vede l’umanità come una specie votata al falso, presa all’amo da tutti gli inganni. Il suo è un tono così innaturalmente distante che lascia di stucco; ma anche con improvvise invettive o sarcasmi che mettono a disagio il lettore in cerca di conforti nella carta stampata”; il modo di narrare  di Flann O’Brien, Joyce, Beckett non è “più consacrato alle rappresentazioni della coscienza, ma a qualcosa che le perturba e le disperde nel silenzio; ed è un modo di narrare che si rivolge a lettori che non credono più alla falsa concretezza dei fatti, del fattibile, del verosimile, dell’attualità…”. E su Joyce, in particolare, e il suo Ulisse: “Il punto focale della peregrinazione di Mr Bloom è la vita qualsiasi, la vita senza niente di speciale, la vita come un sogno o un lungo chiacchierare con se stessi.”

È tuttavia nei due saggi che aprono e chiudono la sezione dedicata agli americani che la lettura di Celati si fa scrittura che coinvolge, quanto le opere di quelli.

Bartleby innanzitutto, e il suo “avrei preferenza di no”: perché “questa vicenda ci lascia più pensosi di ogni altro racconto moderno?” Per via dei caratteri del personaggio: “imperturbabile e laconico, sordo ad ogni ragionevole persuasione” ma anche, si badi, “inespugnabilmente mite”, e “figura di ciò che non può essere salvato” e allo stesso tempo “di chi non ha nessuna voglia di farsi salvare”, chiuso in “austero riserbo” venato di una “sbiadita altezzosità”. E via di questo passo: lo conoscevamo, lo scrivano di Melville, ma è come se lo incontrassimo solo adesso, riportandone una lezione che va al di là del personaggio e dalla sua ritrosia a parlare trascorre al significato dello scrivere: “La potenza della scrittura non sta in questa o in quella cosa da dire, ma nel poco o nel niente da dire, in una condizione dove si annulla il dovere di scrivere. Ogni voler dire e dover scrivere è la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nella rinuncia al dovere di scrivere, nella sospensione delle aspettative…”.

 La centralità di Bartleby nell’esperienza – non solo letteraria e culturale, ma anche umana e professionale – di Celati trova conferma nella sua presenza del personaggio anche nel saggio più ampio del libro, le Storie di solitari americani”, in cui non un singolo autore ma il filo che li lega costituisce il tema di fondo: la solitudine. La solitudine, il suo dilagare, il suo assumere forme diverse nel XIX e XX secolo, in America ma non solo.

In Hawthorne – nel suo inimitabile racconto Wakefield, in particolare –, in Poe, in Melville, appunto, “si profila uno stretto legame tra la solitudine in cui [i personaggi di questi autori] si sono smarriti e l’inevitabile caduta cui tutti siamo destinati. Quello è il legame che i linguaggi consolatori debbono spezzare, per nascondere l’angoscia che produce; ma per farlo debbono stimolare una perpetua fuga dal pensiero della nostra caduta. Il laconismo di Bartleby è invece un modo per aderire alla caduta, allo smarrimento dei traffici quotidiani, al destino di alienazione da se stessi, e infine alla propria morte” e rappresenta così una “figura non mitica ma fraterna, che riporta la vita alla sua insignificanza naturale, perché la fa coincidere col semplice scorrere del tempo ed esaurirsi delle forze.”

Dopo i racconti di Hawthorne, Poe e Melville, che “trascinano verso una riflessione sull’ordine sociale, sui suoi limiti, sui suoi margini di estraneità e pericolo”, in cui “la solitudine prende un senso nuovo”, si diffondono le short stories, nelle quali tutto è “casalingo, familiare” e l’umanità che vi compare “facilmente comprensibile”: è “l’invenzione della normalità”, l’affermarsi di una narrativa rassicurante. Unico a non piegarsi al nuovo corso, Henry James, che continua la riflessione sulla solitudine moderna e “non (cede) alla tentazione di spiegare che cosa c’è nella testa degli altri”. La sua reticenza è una forma di resistenza alla “volgarizzazione moderna (che) fa tutt’uno col mito della comunicazione sociale, che seppellisce l’incomprensibile della vita sotto strati di parole morte” e ridefinisce la solitudine, la quale “non sta più nell’essere soli, ma nel non poter evadere dalla sterilità dei copioni che dovunque si recitano per dovere” tornando “sempre agli stessi incastri nevrotici che coincidono con i costumi delle società civili.”  

Jack London, consapevole di questa involuzione, crea storie ambientate nei “deserti artici come esperimenti mentali per immaginare cosa può essere la vita fuori dagli schemi immunitari delle società moderne che la riducono a un insieme di meccanismi previsti”, quando invece è una “radicale incertezza sulla propria morte che segna tutta la vita dell’animale umano.”

L’eredità di London sarà raccolta da scrittori come Hemingway, caratterizzati da “un laconismo che indica una solitudine di fondo, ma anche (da) un riserbo dettato dalla difficile condizione dell’esperienza individuale”, destinata a una sostanziale cancellazione non colmata da “mitologie della libertà interiore”, ma piuttosto – come in uno dei primi racconti di Gertrude Stein – da un’identificazione con una socialità in cui ciò che avviene è “l’annientamento dell’individuo”. Come in Stein, così in Sherwood Anderson e in Hemingway “troviamo personaggi che sembrano estranei a tutto, con cui non possiamo identificarci; ma personaggi che lasciano il segno del loro laconismo e della loro solitudine nella forma narrativa, nel tono delle parole che parlano di loro; per cui quei racconti diventano come verbali della loro estraneità e assenza d’espressione”. E insieme denuncia della “chiacchiera” che serve “ad abolire i silenzi mascherando la solitudine con una parvenza di integrazione in un gruppo; e siccome è un parlare che ripete ciò che è stato già detto da altri, come se tutto fosse sicuro e scontato, la chiacchiera estende ad ogni incontro un’idea di normalità come regola di vita”, una vita “ovvia, prevista o prevedibile, risolta o risolvibile nel migliore dei modi”, in ogni caso  obbediente all’”imperativo categorico di mostrarsi agli altri sempre felici della propria situazione”, all’“imperativo ‘Smile!’”, “segno d’un’integrazione sociale di rappresentanza”.

Celati parla di autori del passato, ma è il nostro mondo a emergere dalle sue parole.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

L’enigma di una vita anonima

Dag Solstad, T. Singer, Ipeborea 2019 (pp. 249, euro 17)

Questo romanzo – ci avverte l’autore quando ne abbiano letto più o meno la metà – “è l’unica descrizione esistente della vita di Singer, e probabilmente anche l’unica possibile. Perché bisognerà ammettere che a questo punto della storia potrebbe sembrare un enigma che Singer stesso sia il protagonista di un qualsivoglia romanzo, di qualunque livello; tuttavia possiamo svelare che questo enigma è precisamente il tema del romanzo che stiamo cercando di costruire”.

Enigma: la parola ricorre in queste pagine. Perché il protagonista stesso deve riconoscere di essere un enigma ai suoi propri occhi. Lo era da giovane, quando di frequente veniva preso da una vergogna insopportabile per un episodio insignificante del proprio passato, e tale resta da adulto. Se qualcosa risulta chiaro è che quel senso di imbarazzo che più di tutto paventa lo assale quando l’immagine – neutra, indefinibile – che di sé tiene a dare rischia di essere contraddetta da un comportamento, da un discorso. Singer è pirandellianamente angosciato dal fatto che siamo tanti quante sono le maschere che indossiamo, o ci vengono strappate, in pubblico. Schivo e desideroso di anonimato, come un Bartleby; indifferente a quel che gli accade e, si direbbe, privo di veri e propri desideri, come il Meursault di Camus, “(vaga) solo sulla faccia della terra”. Il rapporto con la moglie è naufragato, ancora prima che lei morisse, in questo suo distaccato quanto inattaccabile riserbo, in questa distanza dal mondo e da sé che si frappone anche tra lui e la figlia acquisita.

Non mancano eventi, nella storia della sua vita, ma sono soprattutto i suoi rimuginii a tenere il campo, raccontati con una meticolosità ossessiva che può ricordare Bernhard, salvo cedere poi a digressioni, a pagine e pagine in cui la narrazione sembra impaludarsi, mettendo alla prova il lettore, c’è da dire. Eppure si va avanti, in qualche modo coinvolti dalla sorte di quest’uomo che desidera scomparire senza andarsene, vivere in incognito in mezzo agli altri: “L’introverso Singer che sta sempre un po’ in disparte, taciturno e modesto, col suo umorismo garbato e quei modi schivi fino all’annullamento di sé (…). Dev’esserci una crepa indecifrabile nella sua personalità”, pensa chi lo conosce, o crede di conoscerlo. Il che non rappresenta un problema, per lui: “immaginava di apparire ai loro occhi un enigma. E l’idea gli piaceva. L’enigma Singer.  La sua disperazione di non avere il controllo di se stesso, e di andare alla deriva, mentre osserva tutto dall’esterno – perché è questo che lui in fondo sente, pur senza farne mai una tragedia – è trasformata in un’espressione di rispettosa meraviglia negli occhi degli altri. Niente male. Niente affatto male, (pensa) Singer”, anche se un’inquietudine sottile si fa sempre più pervasiva: il sollievo di non essere trasparente, altro da quel che è, sa che è passeggero, perché la morte arriverà anche per lui. E allora, “a cosa mai mi servirà essere stato un enigma per me stesso e per gli altri?”

Se, leggendo, si è conservata la speranza che alla fine Singer si riveli, o che accada qualcosa che sciolga l’”enigma”, si resterà delusi. Solstad ama lasciare in una sostanziale opacità le scelte dei suoi personaggi (così anche in altri suoi romanzi, come Romanzo 11, libro 18, Iperborea 2017), convinto com’è che “In ogni romanzo c’è un grande buco nero, universale nella sua nerezza”, “e questo romanzo è appena arrivato a quel punto”, informa a poche pagine dalla fine, riproponendo   la domanda che già aveva posto: “Perché Singer è il protagonista di questo romanzo? (…) Vorrei essere stato capace di dire qualcosa che Singer non fosse in grado di pensare (…), ma le parole non sono sufficienti. Il mio linguaggio finisce dove finiscono le riflessioni di Singer. Non per questo siamo identici”. Un’ implicita ammissione di autobiografismo, attenuata però da un’avvertenza di metodo: autore e personaggio non coincidono mai…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una grammatica all’altezza dei tempi

Carola Barbero, Addio. Piccola grammatica dei congedi amorosi, Marietti 1820, 2020 (pp. 223)

Certo il Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, ma anche la vasta letteratura psicologica sull’attaccamento e il distacco echeggiano in questo libro, una sorta di catalogo degli addii fra amanti (ma non dimentichiamo che anche un museo, in proposito, esiste: il “Museo delle relazioni interrotte” di Zagabria). Non solo un catalogo però: anche una grammatica, che come ogni grammatica formula delle regole, mai in astratto tuttavia ma sempre ricavate da racconti – a volte solo accennati, altre delineati nella loro trama – di esperienze concrete, e supportate da citazioni che trascorrono con sorridente disinvoltura da Friedrich Nietzsche a Lucio Battisti, da Caterina Caselli ad Antonio Gramsci. Ma veniamo alle regole, che, volendone fare un’estrema sintesi, potremmo riunire in un monito ricorrente in queste pagine e riassunto in una delle ultime: “lungi dall’essere un suicidio, il riuscire a dire, finalmente,‘addio’, è in realtà un inno alla vita. Essere riusciti a liberarsi degli alibi, della diplomazia, delle zavorre, delle aspettative degli altri e dei doveri fasulli, con un unico e maestoso proposito, quello di provare a vivere, e di farlo per noi, questa volta”.  Ecco allora che, ripercorrendo “contromano” la strada tracciata da Barthes, l’autrice, filosofa del linguaggio e della letteratura,  constata innanzitutto che “oggi il congedo amoroso (…) pur essendo spesso praticato – sono liquidi anche i legami, ormai, come faceva magistralmente notare il grande Bauman – , è raramente elaborato, compreso e condiviso con in realtà meriterebbe”, e incapace di ammettere che Emily Dickinson aveva ragione ne dire che “Dirsi addio è uno dei prezzi della Vita Mortale”. Da quei tempo i mezzi per dirselo sono cambiati, “ma dire ‘addio’ continua a essere difficile”. Ma difficile è anche attribuire il significato che la parola ha, e le conseguenze che comporta: “Ecco perché l’addio deve essere preparato, meditato, deciso, solitario e (soprattutto) definitivo”. L’angoscia dell’abbandono e la paura dell’assenza – che riporta alla luce esperienze antiche, spesso rimosse, di abbandono e di assenza: aspetto questo forse non sufficientemente considerato – devono essere messi in conto ma non tramutarsi in fantasmi che atterriscono: “quell’aspettare vuoto (che spesso segue i congedi (…) non è l’attesa di qualcuno che deve arrivare, ma il semplice tentativo di recuperare quell’io che eravamo (prima che la relazione, ormai finita, mettesse tutto in discussione) e che c’è ancora, da qualche parte”. È di questa convinzione che occorre farsi forti: “quell’io è l’unica cosa di cui valga la pena aspettare il ritorno”. Volersi bene insomma, dopo aver voluto bene… Disposta come un dizionarietto in cui i casi e i temi in essi dominanti si succedono in ordine alfabetico, questa “grammatica” non va confusa con i manuali di “autoaiuto” o le guide all’“autostima” che imperversano on line non meno che sugli scaffali delle librerie: è dell’immaginario e dei comportamenti, dei modi pensare e di sentire dei nostri tempi che questo libro parla.

Restare umani nella guerra

Albrecht Goes, Notte inquieta, Marcos y Marcos 2018 (pp. 112, euro 15)

La guerra è la “guerra di Hitler”, una guerra che occorreva perdere se si voleva avere ancora un futuro, “una vita degna di un uomo”. Non leggiamo però di battaglie e bombardamenti in questo libro. La guerra è un’atmosfera, che si è diffusa dovunque Hitler sia arrivato: una “miscela di odori, di olio per i fucili, di panno militare, di gavette e soldati (…) era impossibile respirarla senza capire immediatamente dove ci si trovava: nella galera Europa”. Ed è una galera nella galera, dunque, una prigione vera, quella in cui il protagonista, un cappellano militare – quale lo scrittore fu davvero nella seconda guerra mondiale – è chiamato a dare assistenza a un disertore che sarà giustiziato l’indomani all’alba. Un condannato di cui il cappellano vuole conoscere la storia: non potrebbe, altrimenti, cercare di offrirgli “un’ultima notte tranquilla su questa terra”.

È il sarcasmo delle guardie che il pastore deve innanzitutto affrontare, dileggiato come “clown del paradiso” da uomini che non fanno che manifestare in questo modo il disprezzo dello stesso Hitler per i cappellani militari (“un impaccio inutile”), e poi la crisi di coscienza del comandante del plotone di esecuzione (“quale ordine difendiamo con la nostra guerra? L’ordine dei cimiteri…”). Leggerà poi documenti che ricostruiscono i precedenti del condannato, o meglio “la cronaca (la storia esterna) di quella vita. Ma quale sarà stata la storia intima?” si chiede il pastore, e non ha dubbi: “certamente quella di un uomo che non è stato abbastanza amato.” Un uomo che oltre tutto “non si è mai occupato molto né di Chiesa né di religione”, e che tuttavia, a contatto con il cappellano “(riguadagna) in fretta un lungo tratto di vita”, finalmente un sentimento di fraternità solidale con la serenità che, dopo questa notte inquieta, ha invaso anche il protagonista: “Come servo del Vangelo dimostrai quale fosse il mio posto: dalla parte dei vinti”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Uno sguardo lucido e desolato

Rachel Cusk, Onori, Einaudi 2020 (pp. 182, euro 16,50)

Anche questo romanzo, come i due che l’hanno preceduto (Resoconto e Transiti, in queste note il 12 dicembre 2018 e il 23 giugno 2019) è accompagnato dall’avvertenza dell’editore: quella di Cusk sarebbe una “trilogia che ha cambiatole regole del romanzo contemporaneo”. Perché? Perché anche in Onori all’autrice interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite, al punto da renderle possibile – assicurava nel primo romanzo – “Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”. Dell’esagerazione, se non dell’infondatezza, di pretendere che un tale atteggiamento scalzi la logica romanzesca si è detto nelle note già dedicate a questa scrittrice. Meglio chiedersi qui se il terzo romanzo si pone in una relazione di piena continuità con gli altri, e la risposta non sembra poter essere del tutto positiva.

Certo la protagonista somiglia ancora all’autrice – scrittrice internazionalmente affermata, chiamata all’estero appunto in questa veste – e la sua concezione del mondo non ha cessato di oscillare fra un pacato disincanto e un pessimismo profondo: le persone vivono in preda a un “ansia” che è “frutto della convinzione che la vita sia governata dal mistero, quando in realtà il mistero non (è) che la misura del nostro rifiuto di accettare la mortalità”, e intanto si cerca di evitare di “passare attraverso lo specchio” cadendo “in quello stato di dolorosa consapevolezza di sé dove le umane finzioni (perdono) credibilità”. Finzioni – come, anche, gli onori, ossia gli apprezzamenti, i riconoscimenti, che il titolo richiama – o zone d’ombra comunque, che governano la relazione coniugale come quella genitoriale, così come il fare degli adulti (anche qui paragonati a grandi, inconsapevoli bambini) e il vivere comune. Perché “la condizione umana è così complessa che ogni volta elude i nostri tentativi di dominarla”. Il che si traduce in destini storici senza scampo: l’Europa, più di altre parti del pianeta, sta morendo, e poiché singole parti vengono sostituite mentre muoiono diventa sempre più difficile capire cosa è finto e cosa è vero, e forse lo capiremo solo quando sarà tutto sparito” (negozi identici in tutti i luoghi del mondo e caffè ridotti “inevitabilmente (a) versioni turistiche di se stessi”, in nome di un “processo di rigenerazione che (comincia) a somigliare a una maschera di morte”).

Modi di vedere, come questo sull’omologazione planetaria, raccolti dai discorsi di altri, incontrati più o meno casualmente, al convegno di scrittori cui Faye – ne leggiamo il nome una sola volta – partecipa. Il suo punto di vista emerge molto sporadicamente, in modo molto più episodico – si ha l’impressione – che negli altri due romanzi, ma soprattutto: la sua capacità di ascoltare sembra qui finire in quella di farsi semplicemente eco della realtà con cui viene a contatto, la sua discrezione risolversi in una sostanziale afasia. E non solo: più che originali, anche se circoscritte, strutture narrative, i racconti degli altri sembrano a volte sconfinare nella chiacchiera e andare ad alimentare una semplice galleria di tipi umani, mentre la coesione della narrazione appare a volte affidata al ricorrere dei temi, alle penetranti descrizioni dell’aspetto delle persone che avvicinano la protagonista, assai meno dagli intermezzi descrittivi dei luoghi in cui si muovono persone che sembrano le figure evanescenti e standardizzate dei rendering.

Neanche in Onori, del resto, lo scrivere, la letteratura, sono sinonimi di autenticità. Anzi, si può dire che tra le pagine più efficaci ci siano proprio quelle che ne denunciano l’irreversibile compromissione in una logica di intrattenimento, sia pure colto, che l’industria editoriale, il mercato impongono: “nei bassifondi di Internet”, “i lettori – spiega l’editore – (esprimono) le loro opinioni sui propri acquisti letterari più o meno come avrebbero potuto valutare i risultati di un detersivo”. È del resto “una posizione di debolezza vedere nella letteratura qualcosa di fragile che (va) difeso” come fanno molti scrittori contemporanei”. “Piuttosto ciniche” giudica simili affermazioni la nostra scrittrice, anche se non sembra estranea alla sentenza di uno dei suoi personaggi, sec convinto che proprio “ciò che non (si) sa descrivere sia la vera realtà”. La vera realtà: estranea a ciò di cui non si sa, non si può, non vale la pena di scrivere. Forse era questo l’approdo naturale, inevitabile, lucidamente perseguito, della trilogia di Rachel Cusk. E la scena con la quale il libro si chiude, tanto banale quanto desolante, ne appare il sigillo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una dissimulata arte del vivere

Adalbert Stifter, Uno scapolo, Elliot 2019 (pp. 120, euro 13)

Campione di una “mitizzazione inconsapevole del mondo agreste”, esponente dello “strapaese del mondo absburgico”, “poeta di un idillio campestre che era essenzialmente una finzione” la quale “poteva trovare una sua patetica misura soltanto nell’evasione e in una idealizzata e severa vita dei campi e dei boschi, lontana dai fermenti cittadini”: il profilo di Adalbert Stifter che Claudio Magris tracciava quasi sessant’anni fa nella sua opera prima (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna), cozzava consapevolmente con i giudizi espressi da Nietzsche e da scrittori come Thomas Mann, secondo il quale Stifter (1805-1868) è da considerarsi “uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale”. Non a caso, infatti, destinato a ispirare autori della levatura di Sebald e di Auden.

Anche limitandoci a questo racconto – minore rispetto a quelli più spesso ristampati di Stifter – si deve ammettere il peso di un certo tradizionalismo, che sembra circoscrivere l’orizzonte entro il quale si muovono i personaggi, i quali si realizzano o sembra possano realizzarsi solo nel matrimonio e nella famiglia e più in generale in un senso della misura che sconfina in una sorta di eroismo della moderazione. Senonché, in quello stesso orizzonte fa le sue prove un senso del limite, una accettazione della propria finitudine che si traducono in una prosa limpida, in un periodare pacato, in pagine che recano un’impronta inconfondibile.

La lucidità, e insieme la delicatezza, con la quale la gioventù del protagonista – semplice e generoso, alle soglie del passaggio al mondo adulto – si confronta con la vecchiaia dello zio misantropo – e, almeno apparentemente, avaro anche del poco tempo che sente rimanergli –, ma ancor più la relazione fra gli stati d’animo e i paesaggi diffusamente descritti, ma raccontati sarebbe meglio dire (non dimentichiamo che Stifter era anche pittore) testimoniano di uno sguardo per il quale vicenda e personaggi sono tramite di riflessioni il più delle volte solo implicite ma pazientemente suggerite al lettore:  l’individuo, e la sua storia, non possono che misurarsi con un Tempo e una Natura sostanzialmente indifferenti, in cui tuttavia misteriosamente si riflettono, hanno uno spazio, indefinibile ma certo, le gioie e i dolori, le speranze e le disillusioni dei singoli. La misura, l’attesa, la pazienza, la pacatezza non sono allora virtù astratte, regole d’una morale pavida e rinunciataria, ma atteggiamenti all’altezza del destino che agli uomini è dato di vivere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Naufraghi a 2000 metri di quota

Maurizio Pagliassotti, Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina, Bollati Boringhieri (pp. 218, euro 16)

Articoli saggi romanzi sulla tragedia dei migranti nel Mediterraneo; quasi nulla su quelli che cercano di raggiungere Besançon da Bardonecchia, la Francia dall’Italia: “in fuga sulla rotta alpina”. Solo l’episodio dello sconfinamento dei gendarmi francesi nella caccia all’uomo cui si dedicano fra quei monti ha fatto notizia, non così i frequenti ritrovamenti dei resti di coloro che senza il minimo equipaggiamento tentano di superare il Colle della Scala in pieno inverno. E intanto, cittadini attempati si sono improvvisati passeurs, un prete e un pastore valdese si sono messi di mezzo, molti No Tav hanno dato un nuovo obiettivo alla loro passione civile: “Ho visto con i miei occhi – riferisce l’autore – gli stessi uomini e donne tagliare con le tronchesine delle protezioni di ferro e tenersi in casa, per mesi, sconosciuti che poi se ne sono andati senza un saluto (…). Le stesse mani che hanno gettato sassi contro lo Stato hanno salvato lo Stato dalla vergogna di avere una distesa di cadaveri ripugnanti tra i suoi boschi”.

Il racconto di episodi agghiaccianti si intreccia con giudizi che non lasciano adito a distinguo: “Il ragazzo africano che attraversa le Alpi è la plastica manifestazione del mondo che verrà, che ci piaccia o no. Solo un amore, una passione incontenibile, che travalica ogni sorta di rischio può muovere un essere umano ad affrontare un pericolo semplicemente non descrivibile. Un’attrazione inesorabile verso un sistema che noi vogliamo chiuso ed esclusivo, barricato e difeso da inutili eserciti, ma alla fine indifendibile di fronte a questa determinazione. (…) La tragedia di questo incredibile momento storico in Italia, ma vale per tutti gli altri mondi uniti dalla ferrea volontà della decadenza che prende il nome di ‘sovranismo’, un mondo ormai veramente senza confini, è data dalla fuga di questo ragazzo e dalla nostra folle cecità che vede in lui (…) un nemico”.

“Soltanto quando questo Inferno – e quello che questo libro racconta lo è certamente – trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”: la constatazione di un critico letterario come Gian Luigi Beccaria (Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019) trova nel libro di Pagliassotti una conferma inequivocabile: “Quei morti in mare, centodiciassette annegati negli abissi e nella notte. Quando leggerete queste righe non li ricorderete nemmeno più, sostituiti da altri, più freschi, più numerosi. Ma oggi, io, li vedo: non c’è nessuna differenza tra quel mare di acqua e questo mare di neve”, in cui si muovono, e muoiono, “naufraghi a 2000 metri di quota”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un libro per scrittori e lettori

Gian Luigi Beccaria, Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019 (pp. 160, euro 18)

Scrivere è trovare il modo di “scavare un pozzo con l’ago”, secondo un modo di dire turco riferito da Orhan Pamuk. Non è tanto il perché e il per chi si scrive, infatti, ma il come a interessare gli scrittori, gli scrittori veri, quelli cioè che sanno bene di dover fare i conti con innumerevoli “padri letterari”, nel contempo consapevoli che ormai da tempo “è caduta quell’idea durata secoli secondo la quale sembrava ci fossero più cose dentro ai libri che fuori”. Si tratta di non ignorare la tradizione, quindi, ma neanche il fatto che il consenso che circondava lo scrittore, frutto di un mandato sociale certo, è tramontato.

Non è un trattato sistematico né una ricostruzione storica, e tantomeno un manuale di scrittura (“ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili”) il libro di Beccaria, linguista e critico letterario, ma un insieme di osservazioni su pochi autori (“quelli che conosco”) e il loro modo di svolgere il mestiere scelto. Il mestiere di scrivere. Un mestiere che diventa “una specie di vizio”: “ti pare che il mondo non esista se tu non scrivi”, ammetteva Maria Corti, consapevole come tanti altri autori “di esistere soltanto nella propria scrittura”. Perché – non meno recisamente dichiara Pennac – “L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale”. Sono, queste, solo alcune delle citazioni che Beccaria cuce in un discorso che prendendo a prestito la voce degli autori più disparati si fa via via appassionante, per chi scrive, ma anche per chi – forse saggiamente – si limita a leggere e rappresenta l’interlocutore essenziale dello scrittore. Perché, anche se non si scrive più per i posteri – come faceva Petrarca – e qualcuno, come Calvino, giungeva addirittura a riconoscere che “si scrive perché non si sa fare niente di meglio”, di fatto “sullo sfondo della mente di chi scrive restano sempre i lettori”. “Scrivo perché mi piace essere letto”, confessa candidamente Pamuk, mentre Beccaria, da parte sua, si dichiara “propenso a credere che sia la grande attrazione del fare ciò che lega un autore al suo mestiere, pari al gusto con cui un artigiano trova la sua realizzazione di homo faber applicandosi quotidianamente”. Lo stesso Calvino ne conveniva: “io resto uno scrittore di impianto artigiano, mi piace fare delle costruzioni che chiudono bene”. Sulla stessa linea Primo Levi, che concepiva “lavoro pratico e scrittura come attività molto vicine”. Anche nel fatto di non chiedere semplicemente estro e fantasia, ma piuttosto una “fatica controllata”, che si è imparato ad affrontare, a gustare persino, leggendo i libri migliori degli altri, perché “uno scrittore, quando legge, pensa anche alla sequenza delle pagine a venire che scriverà in proprio”.

È un elogio dello scrivere quello che emerge dal testo, da una selezione attenta dei punti di vista che Beccaria conduce a conclusioni esemplari di autori come Varga Llosa, serenamente convinto che “lo scrittore sente profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di vivere”.

Non cambiano l’andamento del discorso né il metodo adottato quando l’autore passa a considerare il “lavorio sul testo” una volta scritto e, in particolare, la preziosissima e imprescindibile “arte del levare” (“Più facile scrivere che cancellare”, avvertiva Camillo Sbarbaro: “il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere”); quando dedica pagine alla scrittura poetica, o alla non pianificazione che presiede molto spesso alla scrittura, anche narrativa (“La maggior parte degli scrittori non segue una mappa, ma procede con una bussola”); al ruolo dell’invenzione e dell’immaginazione anche laddove sembrerebbe che l’autore non faccia che ricordare, riferire.

Certo, ogni discorso, non escluso questo sul mestiere di scrivere (e di leggere…), deve fare i conti con l’epoca in cui si svolge: è innegabile che “di un’opera narrativa il lettore medio oggi ama più l’intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze dello stile, ma – assicura l’autore – “le mie annotazioni non nascono dalla malinconia di chi guarda indietro”: “anche la modernità (ha) saputo cogliere il respiro dell’universale, e lo ha fatto esaltando il minimo”, come ha fatto Magris in Danubio, per esempio, ove risulta “manifesto che la pienezza del vivere non si ritrova tanto nel maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle piccole cose, nei gesti e nel dettaglio apparentemente insignificante”.

Ma anche di un’altra circostanza occorre tener conto: “Siamo totalmente immersi, come mai era accaduto prima, in un mare di racconti e riprese in tempo reale”, “valanghe di descrizioni e immagini” che “cadono su di noi già anestetizzati”. Si pensi alle tragedie nel Mediterraneo. Occorre allora una consapevolezza del tutto nuova per rendersi conto che “soltanto quando questo Inferno trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”. Perché “il realismo della cronaca svanisce troppo rapidamente. La letteratura ha maggiore durata”. La letteratura, ma non tutto ciò che viene pubblicato: “Occorre districarsi – infatti – tra una selva di prodotti spesso scadenti, nei quali prevale lo stile di non avere stile, pagine tirate via alla svelta, che mimano l’oralità del come viene viene”. Memori di quanto Leopardi scriveva nel suo Zibaldone: “Chi scrive senz’arte, non è semplice”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Io sono così

Fuani Marino, Svegliami a mezzanotte, Einaudi 2019 (pp. 168, euro 17)

“La paura di quanto poteva accadermi non superava quella di quanto mi era già accaduto.
Allora ho preso coraggio e mi sono buttata. (…) sono caduta, ma non sono morta.”

È la cronaca di un tentato suicidio ad aprire il libro. Il proprio suicidio. Ma raccontato come fosse quello di un altro.  E da un altro riferito: “Come raccontano le oltre mille pagine della cartella clinica – due grossi faldoni che ancora oggi conservo nella libreria di casa – per i successivi mesi sarei rimasta inchiodata al letto.”

Dunque, una prima osservazione sul romanzo non può che riguardare la scrittura. Asciutta, precisa, distaccata: forse si deve scrivere così per raccontare la propria morte… “Del reparto di rianimazione ricordo la sete, il bip delle macchine e l’affanno dei respiratori. La sensazione che accanto a me qualcuno stesse per morire, sempre.”

Poi, il ritorno alla coscienza: “Ero consapevole di quanto avevo fatto? Sì. Ma non me ne rammaricavo. (…) Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta.” Ma non si è trattato di un gesto inatteso. La tragedia era annunciata: “qualcosa di terribile mi era accaduto, qualcosa di cui non avevo colpa e che avevo dovuto affrontare (…) cominciai a pensare che raccontare la mia storia fosse nello stesso tempo un dovere e un’opportunità.” Ma perché aveva voluto morire? La domanda obbliga a un nuovo punto di vista: si poteva parlare dell’atto come fosse stato compiuto da un altro, si può parlare delle sue ragioni solo calandosi nella propria storia. “Non un’unica causa ma una concatenazione di cause mi hanno fatto desiderare la morte. La mia testa, forse predisposta dalla nascita, ha incontrato situazioni sfavorevoli fino al punto di rottura, molto più avanti nel tempo”. È la “storia remota” a dover essere sondata, perché “è difficile liberarsi dal bambino che siamo stati. La nostra infanzia ci insegue e ci condiziona.”

Si coglie, in questa presa di posizione che ha mosso l’autrice e orienta il lettore fin dalle prime pagine, un modo di rapportarsi al problema vicino all’esperienza di altri scrittori che in tempi recenti hanno messo a tema la loro condizione. Emanuele Trevi per esempio (Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018), il quale non ha problemi ad ammettere che “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Per cui la depressione non appare semplicemente una questione con cui fare i conti, da risolvere in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, Einaudi 2018 –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue – in Trevi – alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”.

Se in Trevi l’origine del proprio stato trova una definizione filosofica, esistenziale, in Marino chiede di essere rintracciata nella vicenda personale, e dunque familiare, innanzitutto. A partire da quel nome, Fuani, nel quale i genitori vollero riunire i propri (Furio e Anita): “forse già chiamarmi così rappresentava un destino (…) Ma in questo mio racconto a posteriori, ogni dettaglio è destinato ad assumere le sembianze sinistre di un segno premonitore.” Quel che è certo è che – tipicamente – già nell’adolescenza la protagonista sperimenta “qualcosa di diverso dalla comune tristezza: assomigliava più alla perdita di senso.” E non a caso, all’università, si iscriverà a psicologia, senza per altro alcun interesse per la professione che avrebbe potuto conseguirne.

Non seguiamo la vicenda di Fuani, da lei raccontata con una precisione pacata che può a tratti ricordare certe pagine di Annie Ernaux, salvo interrogarsi – quando il racconto arriva a dire del primo “esaurimento nervoso” –  circa la necessità di “un codice linguistico diverso” quando si vuol scrivere della malattia. Ma ha senso porsi il problema quando la malattia è mentale? “Il mio tentativo – dichiara l’autrice – è questo libro”, la storia di una progressiva perdita dell’orizzonte che circoscrive la normalità, delle sofferenze di una “depressione post partum” che psichiatri freddi e protocollari, da un lato, e dall’altro familiari ben intenzionati ma incapaci di vedere quel che pure hanno sotto gli occhi, non sanno arginare. Poi, la cronaca degli interventi chirurgici, strettamente, volutamente aderente al linguaggio settoriale della medicina: protagonista sono il corpo e le operazioni che su di esso si svolgono; la storia e la soggettività sembrano messe al bando da quanto è accaduto. Ma sembra andar bene così: quello di cui Fuani può finalmente godere è il “sollievo nel non avere responsabilità, nell’essere presa in carico da qualcuno (…) Paradossalmente stavo meglio”. Senonché la pressione della domanda, più o meno esplicita, che gli altri inevitabilmente fanno gravare sulla convalescente – perché l’hai fatto? – va crescendo, si fa quesito interiore, ineludibile: “Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni – cerca di mettere a fuoco Fuani –: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta.” Ma “ci si abitua a tutto (…) e ci si rialza”, deve constatare nei mesi della riabilitazione, anche grazie al provvidenziale incontro con una dottoressa che la convince dell’essenziale: “Tu non sei quello che hai fatto.” Che è come dire: non c’è solo l’“etichetta psichiatrica” – “disturbo bipolare di tipo due” –, ma ci sono anche il proprio “temperamento” e la propria “visione delle cose”, e la necessità di accettare una “convivenza difficile”: quella con se stessi. Una necessità inaggirabile: “credere che questo libro migliorerà le cose significherebbe raccontarsi delle favole.” Ma la determinazione a fare lucidamente i conti con se stessi non impedisce di vedere che quello di essere felici, nei paesi occidentali almeno, da diritto si è fatto dovere e che “questa visione rende particolarmente difficile accettare condizioni come la malattia in generale e la depressione ancora di più.” E un romanzo, la letteratura più della saggistica, possono servire a anche a questo: a contrastare questa difficoltà, sempre più stridente in una società in cui la depressione sembra, a livelli e secondo declinazioni diverse, rappresentare un tratto costitutivo. Ne è consapevole l’autrice, fin dal momento in cui ha avuto l’idea del romanzo: “compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride (…): IO SONO COSĺ.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La famiglia dell’architetto e altri animali

Lia Piano, Planimetria di una famiglia felice, Bompiani 2019 (euro 15, pp. 158)

Oltre al cognome, quel planimetria nel titolo mette sull’avviso: non si tratta di un’omonimia. L’Autrice è figlia di Renzo Piano, e fra i meriti del romanzo c’è anche quello di darci un suggestivo ritratto dell’architetto da giovane. Quanto al titolo, è ovviamente Tolstoj a venire in mente, e il famoso incipit di Anna Karenina: contraddetto, si direbbe, in questo caso. Anche le famiglie felici sono felici a loro modo, questa di sicuro. Anche se ad un’altra famiglia è inevitabile pensare: quella di Gerald Durrell. Anche nella famiglia Piano si muove infatti una donna tuttofare di estrazione popolana e saggezza nativa; l’ultimogenito è il narratore e deve fare i conti con i fratelli maggiori (“Essere la più piccola di una famiglia numerosa significa arrivare quando l’esperienza ha già operato la sua lenta erosione sulle certezze. Quando due più due non fa più quattro”); gli animali occupano un posto di tutto rispetto, che siano cani (quatto) o galline (cinquanta), come quelle per cui il geniale architetto, per altro quotidianamente assorbito dalla costruzione di una barca, concepisce l’idea di un pollaio la cui progettazione sarà partecipata, aperta al contributo di ciascuno dei familiari, nessuno escluso. Nel frattempo, la planimetria di questa casa – sulle cui porte, coerentemente con la comune ispirazione libertaria, campeggia la scritta “Vietato vietare” – evolve in conseguenza del delinearsi delle attitudini e degli hobby fra loro diversi che gli abitanti via via coltivano. Tanto intensamente da non aver tempo da perdere con quel che accade fuori dalla casa: “Maria – la bambinaia cuoca cameriera – fu incaricata di tenere i rapporti tra noi e il mondo, e farci un riassunto di cosa capitava là fuori”. Un romanzo divertente, scritto con spirito, con un finale esplosivo… di cui non è il caso di dire qui.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una battaglia persa che vale la pena di continuare

Goffredo Fofi, L’ oppio del popolo, Elèuthera 2019 (pp. 166, euro 16)

“Per uno come me – conclude l’autopresentazione che è anche un rapida autobiografia intellettuale ad apertura del libro – e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato facile per il potere servirsi della cultura (…) cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici della manipolazione, del dominio”. È la sintesi del discorso, con un’appendice decisiva, su quel che occorre fare ma non tutti possono: “È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti”.

Se il pensiero, a quel richiamo a minoranze convinte e rigorose, va a un altro recente pamphlet, quello di Gustavo Zagrebelsky (Mai più senza maestri, Il Mulino 2019), la critica spietata che passa in rassegna i diversi settori e aspetti della cultura sembra evocare i toni perentori, non di rado sarcastici, del romanzo di Francesco Pecoraro (Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019).

Il bilancio pesantemente dello stato delle cose è infatti anche qui decisamente negativo: “Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi”. 

Il discorso che da questi presupposti si sviluppa dimostra come l’identificazione di un nuovo oppio del popolo nella cultura – intesa in tutte le forme assunte, a partire dagli anni Ottanta soprattutto: dall’informazione, oggi detta comunicazione, all’arte e alla letteratura, dal teatro al cinema, dall’editoria alle altre branche dell’industria culturale (festival compresi), dalla scuola al volontariato nelle variegate forme del terzo settore – non sia il frutto di quell’ “esasperazione personale” che pure l’autore ammette, ma di un’analisi dettagliata che non solo la vastità dei riferimenti ma anche lo stile adottato – fatto di giudizi inappellabili e riprese frequenti ma sempre pertinenti e di un tono che unisce l’invettiva alla considerazione scettica – non consentono di rendere in una nota di lettura.

Ognuno può trovare in queste pagine argomenti che lo toccano da vicino. Chi si prova a scrivere, ad esempio, si troverà a riflettere sulla necessità di “guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi – altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante – e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) e dunque sull’opportunità di “guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici”. Perché “Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guadare, colpa”. Ma più in generale, a trovare in questo libro motivi di inquietudine e ragioni di autoesame sono – siamo – tutti coloro che in tesi come quelle espresse da Fofi in varia misura si riconoscono senza per questo avvertire, tuttavia, la necessità indilazionabile di cercare un sbocco pratico, politico, collettivo alle loro convinzioni. A tutti costoro l’autore rivolge un invito preciso, anche se non certo declinabile in soluzioni specifiche: “diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, (…) teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti”, nella sostanza. Non distinguibili da coloro che “Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia” e “Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il piacere di narrare di un grande scrittore

Marina Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, Marsilio 2019 (pp. 199, euro 13)

Per i numerosi cultori dell’opera di Italo Calvino la pubblicazione di un libro sul loro autore prediletto è sempre un’occasione per tornare a scoprire punti di vista nuovi, da condividere o con i quali misurarsi comunque. In molti casi, il Calvino che in questi studi si ritrova risulta una figura stilizzata, se non ridotta allo scrittore più interessato ai meccanismi dello scrivere che al piacere del narrare, ed è appunto a riequilibrare questa tendenza critica che arriva questa rilettura del Barone rampante e di Se una notte d’inverno un viaggiatore, i due romanzi più lunghi di Calvino, tanto lontani per impostazione narrativa – tradizionale il primo, sperimentale il secondo – quanto accostabili per l’“impronta volutamente coinvolgente” e soprattutto per la scelta di raccontare “vite di personaggi in qualche modo sovrapponibili a quella dell’autore”: in due sensi. Innanzitutto perché vi si possono rintracciare riferimenti autobiografici, anche se non espliciti, ma connotati da un’indubbia importanza esistenziale per l’autore; in secondo luogo, perché vi traspare una “passionalità” che si rivela nelle “più riuscite rappresentazioni dell’amore e dell’eros che Calvino abbia mai affidato ai suoi libri”. Se è soprattutto nel Viaggiatore che si possono leggere i diversi aspetti dell’esperienza di scrittore, di “uomo di casa editrice” e, certamente, anche di “teorico della letteratura”  – perennemente attratto da Le mille e una notte, luogo della “basilare e partecipata sovrapposizione tra l’esistenza e la fruizione di storie” –, è nel Barone che non solo è facile scorgere in Cosimo una “proiezione” dell’autore, ma è anche possibile ripercorrere allusioni alla propria vicenda personale e “velate riscritture del (suo) romanzo familiare”. È questa la traccia di ricerca che si segnala per un’originalità e un’acutezza di sguardo che raramente si riscontra in altri saggi sull’opera di Calvino. Senza nulla togliere alle “Tre letture per il Viaggiatore”, che costituiscono la seconda parte del libro, né ai tre studi raccolti nell’Appendice, infatti, è nella prima parte – dedicata al Barone rampante –  che ritroviamo una rilettura per alcuni versi sorprendente.   A partire da “un passo poi non confluito nell’edizione del libro, nel quale Biagio, il narratore, richiama un tratto della personalità del fratello: “una componente di rimorso per aver sottratto la sua vita all’immediata comunanza con gli uomini”, altra faccia del suo ininterrotto tentativo di “conquistare un equilibrio tra l’arbitrio ingiustificabile della sua volontà di star sugli alberi e una giustificazione sociale”.  Al di là dell’eco della vicenda di Calvino, con il coinvolgimento diretto nell’attività di partito comunista – e più in generale in quella “lunga dialettica fra ‘militanza’ e ‘fantastico’”  richiamata da un altro autorevole lettore: il Carlo Ossola di Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove (Vita e pensiero 2016), –  è proprio in posizioni come questa, nella loro mai risolta complessità – o contraddittorietà, se si preferisce – che risiede uno dei motivi per cui lo scrittore resta attuale, testimone di un modo d’essere che non ha certo perduto le sue ragioni politiche e culturali e, più in generale, esistenziali. Ragioni riassumibili nella convinzione che “per essere con gli altri, la sola via (è) d’essere separato dagli altri”.

La sensibilità dell’autrice si evidenzia tuttavia soprattutto laddove ci accompagna a riconsiderare il rapporto di Cosimo con il padre da un lato e la madre dall’altro e, parallelamente, quello di Calvino con i propri genitori, e dunque la passione agronomica e botanica che li aveva contraddistinti, le loro scelte di vita: “eredità genitoriali che lo scrittore sembra abbracciare e da cui sembra allo stesso tempo prendere le distanze”, e che nel romanzo articola nella figura di un figlio che metaforicamente fa propria la passione per la natura del padre reale – nel mentre lascia su uno sfondo “inconcludente e macchiettistico”  il genitore romanzesco – e rivela invece una vicinanza profonda e sostanziale con quella madre che, da Generalessa austera e distaccata, diventa fulcro di “una storia d’amore riscoperto”, lasciando emergere un’insospettata convergenza fra la determinazione del figlio a rispettare fino all’ultimo il suo stile di vita e il costume della madre reale, per la quale “il giardino, il volontario confino, la passione che si trasforma in dovere” erano state le costanti di una vita.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una vita lacerata in un paese spezzato in due

Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi 2019 (pp. 239, euro 17,50)

“Siamo i bimbi del Mezzogiorno. La solidarietà e l’amore degli emiliani dimostra che non esistono Nord e Sud, esiste l’Italia”: è la scritta che compare in una foto ricordo di un fatto poco noto. Nel 1946, il Partito Comunista organizza il trasferimento e il soggiorno di un anno di bambini del Sud presso famiglie emiliane per toglierli dalla miseria che appena dopo la guerra si è fatta laggiù ancora più drammatica.

Questo il fatto. Ma è innanzitutto il linguaggio adottato a farne materia di romanzo. Il linguaggio e chi lo parla: è di uno di quei bambini, Amerigo, il punto di vista da cui la storia viene narrata, a partire dal tragitto che lui e la madre fanno per andare a sentire dell’inaspettata opportunità: “Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo, due miei. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai…”.

La madre Antonietta, che vive di espedienti e di scambi di favori con un malavitoso, chiusa nel suo realismo disperato; Maddalena, l’attivista che organizza il viaggio superando la diffidenza della donna; e poi altre donne, lassù in Emilia: Derna, l’affidataria, un’altra attivista, e la cugina Rosa, nella cui casa Amerigo passerà la maggior parte del tempo fra i figli di lei (Rivo, Luzio e Nario): il romanzo mette in scena figure, di donne soprattutto, delineate con pochi tratti, ma che nel corso della vicenda acquisiranno sostanza e fisionomie inconfondibili, destinate a fissarsi nella memoria del lettore.

È là, lontano da casa, che Amerigo, oltre che poter calzare scarpe decenti, conoscerà la musica, e la vocazione che ne farà un musicista, un giorno, ma intanto, passato il periodo stabilito, deve tornare: superata la paura con cui era partito (indotta da voci come quella che li avrebbero portati in Russia, lui e gli altri) e lo spaesamento dei primi tempi, è poi il dover tornare a confrontarsi con lo squallore senza speranza del basso dove la madre ha continuato a vivere e della bottega di calzolaio – ancora le scarpe… – in cui il bambino sarà messo a lavorare a imporsi, a suscitare l’impressione di essere spezzati in due metà. Non più là, ma neanche qui, come un tempo. E allora la fuga, il ritorno al Nord, e una vita che andrà per la sua strada e solo molti anni dopo riporterà il protagonista a Napoli, dove la madre è appena morta, ma la città non lo accoglie, né come un “turista” né come “uno che appartiene alla città”: “Forse – conclude Amerigo – sarò sempre solo questo: uno che è andato via”.

Avevamo già conosciuto sentimenti simili di irrecuperabile lacerazione, nell’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, ma è il pathos de La storia di Elsa Morante a risuonare via via in queste pagine.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La realtà e il racconto

Janne Teller, È la mia storia, Feltrinelli 2019 (pp. 130, euro 14)

Il riferimento è esplicito: il Mann che fa valere le sue ragioni a proposito dei Buddenbrook, “un libro che viene sempre tirato in ballo in ogni processo scandalistico – scriveva in Bilse e io, nel 1906 –, per il motivo che i suoi personaggi s’ispirano in parte a persone reali”, quando dev’essere chiaro che “La realtà che un poeta utilizza per i suoi fini può ben essere il suo mondo quotidiano, le sue persone più vicine e care (…) ciò nondimeno esiste per lui – e dovrebbe esistere per il mondo! – una differenza abissale tra la realtà e la sua costruzione poetica: la differenza essenziale, cioè, che separa il mondo della realtà da quello dell’arte”.

Non è un grande scrittore a porsi il problema, in questo romanzo, bensì l’editore di un autore che grande non è, ma di sicuro incontrerà il favore del pubblico in un mondo come quello di oggi in cui “i media sono tutto, e l’assenza di scrupoli dello scrittore sembra fatta apposta per la luce dei riflettori”.

Eppure il problema si pone, tanto più che è il tema del discorso che il protagonista deve pronunciare l’indomani mattina: “Si ha il diritto di rendere pubblica una storia che ci è stata raccontata in modo confidenziale solo perché ci si è presi la briga di cambiare i nomi? Trasformare la realtà in narrativa dà carta bianca?”, si chiede, e la riposta che trova sembra quietarlo: “L’arte non è la realtà – sosterrà –. L’artista attinge dalla realtà per creare una riflessione narrativa sulla realtà”.

Ma la questione si complica: il passato non passa, perché possiamo sopravvivere a quello che ci fanno gli altri, non a quello che noi facciamo a loro. Non solo non passa per la donna che è stata da lui poche ore prima, diffidandolo dal pubblicare il romanzo che ha sul tavolo essendo che quella è la sua storia, ma coinvolge di fatto anche l’editore. Nel suo studio, alle prese con la stesura del discorso di cui leggiamo via via le argomentazioni, il problema di coscienza rappresentato dalla decisione se pubblicare o no quel romanzo deborda in un riesame complessivo della sua vita, della sua carriera, del suo matrimonio e delle sue molte relazioni parallele. La sua esistenza ha finito col trovare, di fatto, un termine di confronto ineludibile nella certezza morale di quella donna che si ritiene illegittimamente chiamata in causa dal romanzo. La scrittura di Teller restituisce il ritmo spezzato di un flusso di coscienza che torna continuamente su un dilemma inestricabile, si contraddice, rettifica, crede di aver trovato la soluzione per poi vederla sfarinarsi e tornare quindi ad arrovellarsi daccapo: “I Buddenbrook sarebbe un romanzo peggiore se la famiglia protagonista non fosse riconoscibile? Se i fatti narrati non si svolgessero a Lubecca, ma ad Amburgo?”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La pazienza e il mistero

Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda 2019 (pp. 275, euro 18)

L’esistenza misteriosa, e per certi versi ascetica, dell’anguilla è al centro del discorso, ma si intreccia, a capitoli alterni, dall’inizio alla fine, con un altro enigma, naturale quanto insondabile: quello del rapporto fra un padre e un figlio. È anche un romanzo di formazione, questo romanzo-saggio che sa incrociare la storia degli anni in cui i due hanno pescato insieme anguille e la progressiva comprensione – ad opera di filosofi, naturalisti, scienziati – dell’esistenza di questi animali longevi e ostinati, solitari e impavidi, che continuano attraverso i secoli, i millenni, il loro peregrinare fra il Mar dei Sargassi e i fiumi europei, fra l’acqua salata e l’acqua dolce per poi tornare a riprodursi, e morire – ma la faccenda non è tuttora chiara – nella prima. Un viaggio che questi pesci – a lungo non considerati tali –  hanno continuato imperturbabili di fronte alle guerre che hanno scosso il mondo come alla curiosità umana. Un tempo lento, circolare, che sembra in qualche modo imporsi a chi con le anguille ha a che fare, perché pescarle non tollera la fretta: “La pazienza era il primo requisito che bisognava avere. Dovevi donare all’anguilla il tuo tempo”. E stare zitti: “Quando eravamo giù al torrente, non mi ricordo che parlassimo d’altro se non di anguille e del modo migliore per catturarle. O meglio, non mi ricordo proprio che parlassimo. Forse perché in effetti non lo facevamo mai. Forse perché ci trovavamo in un luogo dove il bisogno di parlare era limitato, un luogo che per sua natura poteva essere meglio apprezzato in silenzio. (…)

Bisognava stare zitti per diventare una parte del tutto”. Anche se lei, l’anguilla, restava sempre al di là: “Ogni volta che pescavamo un’anguilla, la guardavo negli occhi, cercando di cogliere un frammento di quello che aveva visto. Ma nessuna ricambiò mai il mio sguardo.” Ma neanche quello indagatore degli studiosi. “Gli uomini che nel corso dei secoli hanno considerato il dilemma dell’anguilla un problema da risolvere – passando da una domanda all’altra: è un pesce? è sessuata? perché quel lunghissimo ritorno al luogo d’origine per riprodursi? – sono sempre stati fedeli, in modo quasi amorevole, anche all’enigma stesso”. Il che non significa che “l’uomo, prima o poi, troverà una risposta. Basta dargli tempo”. Non fosse che “il problema è che per l’anguilla il tempo sta per scadere”, e “l’ultimo interrogativo, il più urgente, che riguarda l’anguilla” è ormai un altro: “perché sta morendo?”. Diversi, e fra loro intrecciati, i fattori – tutti umani –  di un’estinzione imminente, “che trascende il normale progresso dell’evoluzione e della vita”, e non si lascia contrastare da misure risolutive: l’anguilla, a differenza del salmone, non si è mai riusciti ad allevarla, a farla riprodurre in cattività. Mentre “Il processo in atto corre incredibilmente veloce” e la sua portata è ormai riconosciuta: “se per le precedenti estinzioni di massa – cinque – si parlava di eventi che avvennero in milioni di anni, adesso si parla di secoli, ma ciò che rende l’odierne estinzione di massa davvero unica è che per la prima volta nella storia c’è un responsabile vivente”. Che pure ha convissuto a lungo con l’anguilla pur pescandola e cibandosene, come per anni hanno fatto quel padre e il figlio che “nel segno dell’anguilla” ha costruito il suo rapporto con il mondo, il suo incanto, i suoi misteri.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Far pace con il tempo che passa

Fabio Geda, Una domenica, Einaudi 2019 (pp. 192, euro 16)

“Aveva sessantasette anni ed era vedovo da otto mesi, durante i quali aveva scoperto di aver prestato nel corso della vita più attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti; ma a tale proposito, oramai, non c’era molto che potesse fare, se non dimostrare a se stesso e ai figli di saper attraversare il resto del tempo distinguendo con maggiore consapevolezza le une dalle altre”: nel ritratto del pensionato ex ingegnere di ponti per lunghi periodi lontano dalla famiglia ci sono già la storia e il suo significato. Riempire la casa vuota invitando a pranzo, una domenica, la figlia maggiore con la sua famiglia, cucinando lui come aveva sempre fatto la moglie. La figlia che sta più vicino – Biella, non troppo distante da Torino. Il figlio è lontano, l’altra figlia sta a Roma: Giulia, la voce narrante. Figli lontani, vedovi soli: il protagonista ma anche la donna che incontra ai giardini a sorvegliare il figlio, skater spericolato, dopo che il pranzo è andato a monte, per un piccolo incidente di una delle nipoti. E allora, tutte quelle buone cose preparate come a rievocare la tradizione familiare ravvivando una tavola ormai deserta? Di qui l’invito a Elena e al figlio Gaston. Un gesto gratuito, e a suo modo necessario.

Come in tutti i romanzi migliori, fra i personaggi se ne aggira uno senza volto, muto, pervasivo: il Tempo. Il tempo passato che emana dall’agenda di ricette compilata dalla moglie morta, il tempo di quando i figli erano bambini, il tempo che si porta via la vita e ci mette di fronte al fatto che “invecchiando si perdono molte cose. Soprattutto cose che non sapevamo di avere.” Ma c’è il tempo presente a far valere i suoi diritti, e ad offrire opportunità, sempre che le si sappia cogliere. Con l’umiltà che il vecchio ingegnere sa mostrare: ascoltando Elena, giocando con Gaston, recuperando – senza mea culpa, ma con una lucida consapevolezza di quel che è stato – il rapporto con Giulia che, come accade in ogni famiglia, era stata quella che aveva subito il peso maggiore della distanza del padre, avvertita anche dai fratelli, e dalla madre forse, ma fattasi in lei motivo di allontanamento dal genitore. Un allontanamento che cederà tuttavia a “una nuova complicità” con il padre, che “nulla (toglie) alle incomprensioni del passato”, ma le rende più “gestibili”. Perché – e l’osservazione si fa qui messaggio che, per il lettore, ben si accorda con il Natale imminente – “Non si (tratta) di cancellare o dimenticare: ma di perdonare”, godendo di quello che occorre saper riconoscere: “un tempo nuovo”.

E dunque tutto si risolverà, perché i personaggi sanno rispondere a una “comune voglia di racconto”, di condivisione delle vicende vissute e del tempo nel quale si sono svolte e rivivono. Nel racconto, appunto. Un racconto, questo di Geda, nel quale – ha notato Ida Bozzi su La lettura dello scorso 15 settembre – l’autore “non si limita a mettere in campo la classica struttura con l’intreccio principale e i flashback”, ma lascia emergere “un terzo tempo, successivo al pranzo raccontato e a quello dei ricordi evocati, un tempo nuovo che può esistere perché l’invito a pranzo c’è stato” e in seguito Giulia ha potuto conoscere Elena che gliene ha raccontato. È nel tempo della narrazione che tensioni e distanze trovano composizione e insieme un luogo nel quale consistere: la casa, che dopo la morte del padre i figli non si sentono di vendere perché è “Un luogo in cui tornare di tanto in tanto. Per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Leggere: un “raccoglimento laico”

Alan Pauls, Trance. Autobiografia di un lettore, Sur 2019 (pp. 136, euro 12)

Il protagonista è un lettore molto forte, ma è un po’ tutti coloro che leggono molto.

La trance del titolo è quella cui la lettura può dar luogo quando sembra che “il mondo sia sparito con tutto dentro, compreso tutto ciò che (si) ama tranne quello che (si) sta leggendo”: anche il proprio corpo passa in secondo piano ed è questa “la prova più irrefutabile dell’intensità della trance in cui cade chi legge (…): solo ripiegamento e oblio, l’indifferenza quasi zen in cui la lettura avvolge chi legge, disattivando tutte le funzioni che potrebbero cospirare contro l’esclusività dell’esperienza”.  

L’autobiografia del sottotitolo – organizzata in brani disposti in ordine alfabetico – parte proprio da qui: dal fastidio, dall’incubo anzi che l’interruzione rappresentava già per il lettore bambino, lettore precoce tanto da imitare l’atto del leggere ancor prima di saperlo fare, e arriva alle riflessioni del lettore attempato sulle pagine da lui variamente chiosate e sottolineate, prova di una dedizione durata l’intera vita. “Quando torna ai libri più vecchi che ha – infatti –, quelli più segnati dalla sua mania di sottolineare, ha l’impressione di trovarsi fra le mani non un libro ma due: uno, il libro in sé, originale, intatto; l’altro (…) (che) narra la sua storia di lettore”.

Tra uno e l’altro capo, osservazioni su che cos’è leggere tanto penetranti e originali – spesso assonanti con quelle lette in Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna di Lina Bolzoni (Einaudi 2019) – che vale la pena di seguirle pur attraverso riferimenti culturali che sfuggono spesso al lettore medio italiano.

Osservazioni che ci vengono proposte fin dalla esplicitazione iniziale dello scopo del libro (o “glossario”, come Pauls preferisce chiamarlo): “Dichiarare il debito incommensurabile che lo scrivere (compulsione strategica) ha con il leggere (quel vizio gratuito, benefico, generoso)”. Sempre che la lettura sia vera lettura, consapevole che “in tutto ciò che è scritto c’è sempre qualcosa di non scritto”, che cogliere il senso di un testo non è come centrare un bersaglio perché il senso è “qualcosa che non esiste prima”, ma è “qualcosa che nasce e si fa e si disfa nell’incontro fra un testo e un desiderio di leggere”. È allora che nasce una reciprocità che dà sostanza alla lettura e le conferisce la sua “ingenuità provocatoria”, la tranquilla rivendicazione del proprio anacronismo di attività che impone continuità e concatenamento “in uno stato di cose in cui moneta corrente sono la simultaneità e il montaggio”, che chiede una dedizione esclusiva che contrasta radicalmente il multitasking imperante.

Un elogio del leggere, dunque, che non ignora tuttavia la nota obiezione: leggere finisce con l’essere uno stratagemma per non vivere, una pratica di fuga dal mondo. Un argomento con cui Pauls si misura ripetutamente, per arrivare a una conclusione difficilmente contestabile: “Si legge per vivere quanto per evitare di vivere; si legge per sapere che cos’è vivere e come vivere; si legge per fuggire dalla vita e immaginare una vita possibile”. Si legge dovunque e comunque, come i lettori “rilassati” di Steve McCurry, colti in quel loro “raccoglimento laico” che sa resistere a guerre, miseria, catastrofi naturali. Loro, e tutti quanti leggono davvero, fedeli al “modello di ciò che ogni lettura dovrebbe essere: una pratica (un’etica) della fiducia”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

I retroscena della Mille Miglia

Massimo Tedeschi, La maledizione del numero 55. Un’indagine del commissario Sartori da Salò, La nave di Teseo 2019 (pp. 176, euro 16)

Da narratore seriale ormai consumato – e approdato con questo romanzo a una casa editrice prestigiosa – l’autore sa da subito mettere a suo agio il lettore, sia quello che per la prima volta incontra il commissario Italico (Italo, più comunemente) Sartori e nei cenni che lo inquadrano trova i riferimenti necessari per dargli un volto e una personalità inconfondibile, sia quello che riconosce il personaggio avendolo seguito nelle indagini precedenti e prova un’impressione di familiarità nel ritrovare il caffè Impero dove lui fa sosta ogni mattina per bere il suo latte macchiato, il cane Argo che lo accoglie affettuoso, la villa che si intravede dall’altra parte del golfo, a Portese, e calamita lo sguardo del commissario evocando in lui brividi di desiderio ma anche, in questo caso, l’inquietudine che travaglia gli amanti tormentati da un disaccordo di cui non sanno prevedere gli esiti. Già, perché la bella – e agiata, quanto generosa – vedova Anna Arquati, altra vecchia conoscenza, intende partecipare alla Milla Miglia che si sta per disputare, suscitando la preoccupazione, ma soprattutto la gelosia di Sartori, che già se la immagina attorniata da una schiera di ammiratori.

Ma Salò è solo uno dei luoghi lacustri che fanno da cornice alla vicenda: sono l’intero Garda bresciano da Sirmione a Limone – questa la giurisdizione del commissario –, il suo paesaggio, le sue atmosfere diverse secondo la stagione ad accompagnarci nella lettura, a darle un sapore che sembra fare dei romanzi di Tedeschi i capitoli di un’unica storia che si snoda attorno a un lago ora radioso ora grigio e nebbioso ma sempre capace di suggestioni inimitabili.

La velocità, mito dominante dell’epoca, non si concretizza questa volta negli idrovolanti del Reparto Alta velocità – come nell’Ultimo record – manelle rombanti automobili della Mille Miglia del 1936, di poco seguente alle esequie del poeta del Vittoriale, figura simbolo di quel mito e presenza ricorrente nelle avventure del nostro commissario, fin da Carta rossa, il primo romanzo. Sartori non ha tuttavia tempo di seguire i frenetici preparativi della gara. Ha altro da pensare: dalla morte apparentemente accidentale di uno dei piloti francesi iscritti alla corsa e del suo meccanico all’assassinio di una maga, la famosa Nefertari, al secolo Luigina Stroppa, alle cui capacità medianiche ricorrevano i più disparati personaggi dell’ambiente gardesano.

È a Brescia che l’indagine conduce Sartori, nello studio del patron della corsa, Renzo Castagneto, e proprio dal dialogo fra i due – vero pezzo di bravura per realismo e vivacità, insieme alla descrizione di Piazza Vittoria alla vigilia della gara: sembra oggi, non fosse per la presenza del Bigio…  – verrà il sospetto circa le cause effettive dell’incidente mortale. Nelle miserie dell’ambiente borghese della Riviera si dovrà invece cercare il movente dell’uccisione dell’indovina, un ambiente che offre all’autore spunti in abbondanza per darci – come nei romanzi precedenti, si pensi a Villa romana con delitto – un quadro dettagliato e impietoso di un mondo le cui doppiezze e meschinità trovavano alimento nel conformismo imposto dal regime.  

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Morire d’amianto le storie di dolore in un libro

Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro

Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.

Continua a leggere Morire d’amianto le storie di dolore in un libro

Sapere e non fare

Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)

“La parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.

Sono passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta, e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da un presentismo che mina l’idea di futuro.

E allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero essere superati?”

Non resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo precedente Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui: comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.

È questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.

Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La ragioni del padre

Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)

Passa attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli –  si staglia sullo sfondo della scomparsa che questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).

“Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani – ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).

E invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale, diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è più si può mettere a fuoco: attento ai “valori  qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le “sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires  di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è stata la cultura”.  A conti fatti, conclude l’ormai ultra novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.