Restare umani nella guerra

Albrecht Goes, Notte inquieta, Marcos y Marcos 2018 (pp. 112, euro 15)

La guerra è la “guerra di Hitler”, una guerra che occorreva perdere se si voleva avere ancora un futuro, “una vita degna di un uomo”. Non leggiamo però di battaglie e bombardamenti in questo libro. La guerra è un’atmosfera, che si è diffusa dovunque Hitler sia arrivato: una “miscela di odori, di olio per i fucili, di panno militare, di gavette e soldati (…) era impossibile respirarla senza capire immediatamente dove ci si trovava: nella galera Europa”. Ed è una galera nella galera, dunque, una prigione vera, quella in cui il protagonista, un cappellano militare – quale lo scrittore fu davvero nella seconda guerra mondiale – è chiamato a dare assistenza a un disertore che sarà giustiziato l’indomani all’alba. Un condannato di cui il cappellano vuole conoscere la storia: non potrebbe, altrimenti, cercare di offrirgli “un’ultima notte tranquilla su questa terra”.

È il sarcasmo delle guardie che il pastore deve innanzitutto affrontare, dileggiato come “clown del paradiso” da uomini che non fanno che manifestare in questo modo il disprezzo dello stesso Hitler per i cappellani militari (“un impaccio inutile”), e poi la crisi di coscienza del comandante del plotone di esecuzione (“quale ordine difendiamo con la nostra guerra? L’ordine dei cimiteri…”). Leggerà poi documenti che ricostruiscono i precedenti del condannato, o meglio “la cronaca (la storia esterna) di quella vita. Ma quale sarà stata la storia intima?” si chiede il pastore, e non ha dubbi: “certamente quella di un uomo che non è stato abbastanza amato.” Un uomo che oltre tutto “non si è mai occupato molto né di Chiesa né di religione”, e che tuttavia, a contatto con il cappellano “(riguadagna) in fretta un lungo tratto di vita”, finalmente un sentimento di fraternità solidale con la serenità che, dopo questa notte inquieta, ha invaso anche il protagonista: “Come servo del Vangelo dimostrai quale fosse il mio posto: dalla parte dei vinti”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“[La lettura ad alta voce dei propri testi] risulta particolarmente utile ai fini di confermare…”

“[La lettura ad alta voce dei propri testi] risulta particolarmente utile ai fini di confermare la naturalezza e il ritmo dei dialoghi e rendere più agevole la correzione degli eventuali errori. (…) E infatti, ha scritto Flannery O’Connor, ‘l’orecchio sa leggere quanto l’occhio (…) ma talvolta fa addirittura meglio, e chissà quante scoperte ci aspettano in testi che abbiamo percorso con gli occhi, ma la cui qualità tonale continua a rimanere un autentico segreto’”. (Luigi Manconi)

Uno sguardo lucido e desolato

Rachel Cusk, Onori, Einaudi 2020 (pp. 182, euro 16,50)

Anche questo romanzo, come i due che l’hanno preceduto (Resoconto e Transiti, in queste note il 12 dicembre 2018 e il 23 giugno 2019) è accompagnato dall’avvertenza dell’editore: quella di Cusk sarebbe una “trilogia che ha cambiatole regole del romanzo contemporaneo”. Perché? Perché anche in Onori all’autrice interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite, al punto da renderle possibile – assicurava nel primo romanzo – “Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”. Dell’esagerazione, se non dell’infondatezza, di pretendere che un tale atteggiamento scalzi la logica romanzesca si è detto nelle note già dedicate a questa scrittrice. Meglio chiedersi qui se il terzo romanzo si pone in una relazione di piena continuità con gli altri, e la risposta non sembra poter essere del tutto positiva.

Certo la protagonista somiglia ancora all’autrice – scrittrice internazionalmente affermata, chiamata all’estero appunto in questa veste – e la sua concezione del mondo non ha cessato di oscillare fra un pacato disincanto e un pessimismo profondo: le persone vivono in preda a un “ansia” che è “frutto della convinzione che la vita sia governata dal mistero, quando in realtà il mistero non (è) che la misura del nostro rifiuto di accettare la mortalità”, e intanto si cerca di evitare di “passare attraverso lo specchio” cadendo “in quello stato di dolorosa consapevolezza di sé dove le umane finzioni (perdono) credibilità”. Finzioni – come, anche, gli onori, ossia gli apprezzamenti, i riconoscimenti, che il titolo richiama – o zone d’ombra comunque, che governano la relazione coniugale come quella genitoriale, così come il fare degli adulti (anche qui paragonati a grandi, inconsapevoli bambini) e il vivere comune. Perché “la condizione umana è così complessa che ogni volta elude i nostri tentativi di dominarla”. Il che si traduce in destini storici senza scampo: l’Europa, più di altre parti del pianeta, sta morendo, e poiché singole parti vengono sostituite mentre muoiono diventa sempre più difficile capire cosa è finto e cosa è vero, e forse lo capiremo solo quando sarà tutto sparito” (negozi identici in tutti i luoghi del mondo e caffè ridotti “inevitabilmente (a) versioni turistiche di se stessi”, in nome di un “processo di rigenerazione che (comincia) a somigliare a una maschera di morte”).

Modi di vedere, come questo sull’omologazione planetaria, raccolti dai discorsi di altri, incontrati più o meno casualmente, al convegno di scrittori cui Faye – ne leggiamo il nome una sola volta – partecipa. Il suo punto di vista emerge molto sporadicamente, in modo molto più episodico – si ha l’impressione – che negli altri due romanzi, ma soprattutto: la sua capacità di ascoltare sembra qui finire in quella di farsi semplicemente eco della realtà con cui viene a contatto, la sua discrezione risolversi in una sostanziale afasia. E non solo: più che originali, anche se circoscritte, strutture narrative, i racconti degli altri sembrano a volte sconfinare nella chiacchiera e andare ad alimentare una semplice galleria di tipi umani, mentre la coesione della narrazione appare a volte affidata al ricorrere dei temi, alle penetranti descrizioni dell’aspetto delle persone che avvicinano la protagonista, assai meno dagli intermezzi descrittivi dei luoghi in cui si muovono persone che sembrano le figure evanescenti e standardizzate dei rendering.

Neanche in Onori, del resto, lo scrivere, la letteratura, sono sinonimi di autenticità. Anzi, si può dire che tra le pagine più efficaci ci siano proprio quelle che ne denunciano l’irreversibile compromissione in una logica di intrattenimento, sia pure colto, che l’industria editoriale, il mercato impongono: “nei bassifondi di Internet”, “i lettori – spiega l’editore – (esprimono) le loro opinioni sui propri acquisti letterari più o meno come avrebbero potuto valutare i risultati di un detersivo”. È del resto “una posizione di debolezza vedere nella letteratura qualcosa di fragile che (va) difeso” come fanno molti scrittori contemporanei”. “Piuttosto ciniche” giudica simili affermazioni la nostra scrittrice, anche se non sembra estranea alla sentenza di uno dei suoi personaggi, sec convinto che proprio “ciò che non (si) sa descrivere sia la vera realtà”. La vera realtà: estranea a ciò di cui non si sa, non si può, non vale la pena di scrivere. Forse era questo l’approdo naturale, inevitabile, lucidamente perseguito, della trilogia di Rachel Cusk. E la scena con la quale il libro si chiude, tanto banale quanto desolante, ne appare il sigillo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“(…) i misteri della scrittura mi si erano rivelati da poco…”

“(…) i misteri della scrittura mi si erano rivelati da poco (…). C’era stato, sì, un innamoramento accorato, tutto supplice, tra me e le parole. Un riconoscersi a vicenda. Ma ero ancora inesperto. (…) molto tempo più tardi [avrei capito] che proprio in quel’approccio con le parole si recita già uno scongiuro. Che chi scrive, lo fa per sviare la morte”. (Simona Lo Iacono)

Una dissimulata arte del vivere

Adalbert Stifter, Uno scapolo, Elliot 2019 (pp. 120, euro 13)

Campione di una “mitizzazione inconsapevole del mondo agreste”, esponente dello “strapaese del mondo absburgico”, “poeta di un idillio campestre che era essenzialmente una finzione” la quale “poteva trovare una sua patetica misura soltanto nell’evasione e in una idealizzata e severa vita dei campi e dei boschi, lontana dai fermenti cittadini”: il profilo di Adalbert Stifter che Claudio Magris tracciava quasi sessant’anni fa nella sua opera prima (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna), cozzava consapevolmente con i giudizi espressi da Nietzsche e da scrittori come Thomas Mann, secondo il quale Stifter (1805-1868) è da considerarsi “uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale”. Non a caso, infatti, destinato a ispirare autori della levatura di Sebald e di Auden.

Anche limitandoci a questo racconto – minore rispetto a quelli più spesso ristampati di Stifter – si deve ammettere il peso di un certo tradizionalismo, che sembra circoscrivere l’orizzonte entro il quale si muovono i personaggi, i quali si realizzano o sembra possano realizzarsi solo nel matrimonio e nella famiglia e più in generale in un senso della misura che sconfina in una sorta di eroismo della moderazione. Senonché, in quello stesso orizzonte fa le sue prove un senso del limite, una accettazione della propria finitudine che si traducono in una prosa limpida, in un periodare pacato, in pagine che recano un’impronta inconfondibile.

La lucidità, e insieme la delicatezza, con la quale la gioventù del protagonista – semplice e generoso, alle soglie del passaggio al mondo adulto – si confronta con la vecchiaia dello zio misantropo – e, almeno apparentemente, avaro anche del poco tempo che sente rimanergli –, ma ancor più la relazione fra gli stati d’animo e i paesaggi diffusamente descritti, ma raccontati sarebbe meglio dire (non dimentichiamo che Stifter era anche pittore) testimoniano di uno sguardo per il quale vicenda e personaggi sono tramite di riflessioni il più delle volte solo implicite ma pazientemente suggerite al lettore:  l’individuo, e la sua storia, non possono che misurarsi con un Tempo e una Natura sostanzialmente indifferenti, in cui tuttavia misteriosamente si riflettono, hanno uno spazio, indefinibile ma certo, le gioie e i dolori, le speranze e le disillusioni dei singoli. La misura, l’attesa, la pazienza, la pacatezza non sono allora virtù astratte, regole d’una morale pavida e rinunciataria, ma atteggiamenti all’altezza del destino che agli uomini è dato di vivere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Naufraghi a 2000 metri di quota

Maurizio Pagliassotti, Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina, Bollati Boringhieri (pp. 218, euro 16)

Articoli saggi romanzi sulla tragedia dei migranti nel Mediterraneo; quasi nulla su quelli che cercano di raggiungere Besançon da Bardonecchia, la Francia dall’Italia: “in fuga sulla rotta alpina”. Solo l’episodio dello sconfinamento dei gendarmi francesi nella caccia all’uomo cui si dedicano fra quei monti ha fatto notizia, non così i frequenti ritrovamenti dei resti di coloro che senza il minimo equipaggiamento tentano di superare il Colle della Scala in pieno inverno. E intanto, cittadini attempati si sono improvvisati passeurs, un prete e un pastore valdese si sono messi di mezzo, molti No Tav hanno dato un nuovo obiettivo alla loro passione civile: “Ho visto con i miei occhi – riferisce l’autore – gli stessi uomini e donne tagliare con le tronchesine delle protezioni di ferro e tenersi in casa, per mesi, sconosciuti che poi se ne sono andati senza un saluto (…). Le stesse mani che hanno gettato sassi contro lo Stato hanno salvato lo Stato dalla vergogna di avere una distesa di cadaveri ripugnanti tra i suoi boschi”.

Il racconto di episodi agghiaccianti si intreccia con giudizi che non lasciano adito a distinguo: “Il ragazzo africano che attraversa le Alpi è la plastica manifestazione del mondo che verrà, che ci piaccia o no. Solo un amore, una passione incontenibile, che travalica ogni sorta di rischio può muovere un essere umano ad affrontare un pericolo semplicemente non descrivibile. Un’attrazione inesorabile verso un sistema che noi vogliamo chiuso ed esclusivo, barricato e difeso da inutili eserciti, ma alla fine indifendibile di fronte a questa determinazione. (…) La tragedia di questo incredibile momento storico in Italia, ma vale per tutti gli altri mondi uniti dalla ferrea volontà della decadenza che prende il nome di ‘sovranismo’, un mondo ormai veramente senza confini, è data dalla fuga di questo ragazzo e dalla nostra folle cecità che vede in lui (…) un nemico”.

“Soltanto quando questo Inferno – e quello che questo libro racconta lo è certamente – trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”: la constatazione di un critico letterario come Gian Luigi Beccaria (Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019) trova nel libro di Pagliassotti una conferma inequivocabile: “Quei morti in mare, centodiciassette annegati negli abissi e nella notte. Quando leggerete queste righe non li ricorderete nemmeno più, sostituiti da altri, più freschi, più numerosi. Ma oggi, io, li vedo: non c’è nessuna differenza tra quel mare di acqua e questo mare di neve”, in cui si muovono, e muoiono, “naufraghi a 2000 metri di quota”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un libro per scrittori e lettori

Gian Luigi Beccaria, Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019 (pp. 160, euro 18)

Scrivere è trovare il modo di “scavare un pozzo con l’ago”, secondo un modo di dire turco riferito da Orhan Pamuk. Non è tanto il perché e il per chi si scrive, infatti, ma il come a interessare gli scrittori, gli scrittori veri, quelli cioè che sanno bene di dover fare i conti con innumerevoli “padri letterari”, nel contempo consapevoli che ormai da tempo “è caduta quell’idea durata secoli secondo la quale sembrava ci fossero più cose dentro ai libri che fuori”. Si tratta di non ignorare la tradizione, quindi, ma neanche il fatto che il consenso che circondava lo scrittore, frutto di un mandato sociale certo, è tramontato.

Non è un trattato sistematico né una ricostruzione storica, e tantomeno un manuale di scrittura (“ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili”) il libro di Beccaria, linguista e critico letterario, ma un insieme di osservazioni su pochi autori (“quelli che conosco”) e il loro modo di svolgere il mestiere scelto. Il mestiere di scrivere. Un mestiere che diventa “una specie di vizio”: “ti pare che il mondo non esista se tu non scrivi”, ammetteva Maria Corti, consapevole come tanti altri autori “di esistere soltanto nella propria scrittura”. Perché – non meno recisamente dichiara Pennac – “L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale”. Sono, queste, solo alcune delle citazioni che Beccaria cuce in un discorso che prendendo a prestito la voce degli autori più disparati si fa via via appassionante, per chi scrive, ma anche per chi – forse saggiamente – si limita a leggere e rappresenta l’interlocutore essenziale dello scrittore. Perché, anche se non si scrive più per i posteri – come faceva Petrarca – e qualcuno, come Calvino, giungeva addirittura a riconoscere che “si scrive perché non si sa fare niente di meglio”, di fatto “sullo sfondo della mente di chi scrive restano sempre i lettori”. “Scrivo perché mi piace essere letto”, confessa candidamente Pamuk, mentre Beccaria, da parte sua, si dichiara “propenso a credere che sia la grande attrazione del fare ciò che lega un autore al suo mestiere, pari al gusto con cui un artigiano trova la sua realizzazione di homo faber applicandosi quotidianamente”. Lo stesso Calvino ne conveniva: “io resto uno scrittore di impianto artigiano, mi piace fare delle costruzioni che chiudono bene”. Sulla stessa linea Primo Levi, che concepiva “lavoro pratico e scrittura come attività molto vicine”. Anche nel fatto di non chiedere semplicemente estro e fantasia, ma piuttosto una “fatica controllata”, che si è imparato ad affrontare, a gustare persino, leggendo i libri migliori degli altri, perché “uno scrittore, quando legge, pensa anche alla sequenza delle pagine a venire che scriverà in proprio”.

È un elogio dello scrivere quello che emerge dal testo, da una selezione attenta dei punti di vista che Beccaria conduce a conclusioni esemplari di autori come Varga Llosa, serenamente convinto che “lo scrittore sente profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di vivere”.

Non cambiano l’andamento del discorso né il metodo adottato quando l’autore passa a considerare il “lavorio sul testo” una volta scritto e, in particolare, la preziosissima e imprescindibile “arte del levare” (“Più facile scrivere che cancellare”, avvertiva Camillo Sbarbaro: “il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere”); quando dedica pagine alla scrittura poetica, o alla non pianificazione che presiede molto spesso alla scrittura, anche narrativa (“La maggior parte degli scrittori non segue una mappa, ma procede con una bussola”); al ruolo dell’invenzione e dell’immaginazione anche laddove sembrerebbe che l’autore non faccia che ricordare, riferire.

Certo, ogni discorso, non escluso questo sul mestiere di scrivere (e di leggere…), deve fare i conti con l’epoca in cui si svolge: è innegabile che “di un’opera narrativa il lettore medio oggi ama più l’intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze dello stile, ma – assicura l’autore – “le mie annotazioni non nascono dalla malinconia di chi guarda indietro”: “anche la modernità (ha) saputo cogliere il respiro dell’universale, e lo ha fatto esaltando il minimo”, come ha fatto Magris in Danubio, per esempio, ove risulta “manifesto che la pienezza del vivere non si ritrova tanto nel maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle piccole cose, nei gesti e nel dettaglio apparentemente insignificante”.

Ma anche di un’altra circostanza occorre tener conto: “Siamo totalmente immersi, come mai era accaduto prima, in un mare di racconti e riprese in tempo reale”, “valanghe di descrizioni e immagini” che “cadono su di noi già anestetizzati”. Si pensi alle tragedie nel Mediterraneo. Occorre allora una consapevolezza del tutto nuova per rendersi conto che “soltanto quando questo Inferno trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”. Perché “il realismo della cronaca svanisce troppo rapidamente. La letteratura ha maggiore durata”. La letteratura, ma non tutto ciò che viene pubblicato: “Occorre districarsi – infatti – tra una selva di prodotti spesso scadenti, nei quali prevale lo stile di non avere stile, pagine tirate via alla svelta, che mimano l’oralità del come viene viene”. Memori di quanto Leopardi scriveva nel suo Zibaldone: “Chi scrive senz’arte, non è semplice”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Io sono così

Fuani Marino, Svegliami a mezzanotte, Einaudi 2019 (pp. 168, euro 17)

“La paura di quanto poteva accadermi non superava quella di quanto mi era già accaduto.
Allora ho preso coraggio e mi sono buttata. (…) sono caduta, ma non sono morta.”

È la cronaca di un tentato suicidio ad aprire il libro. Il proprio suicidio. Ma raccontato come fosse quello di un altro.  E da un altro riferito: “Come raccontano le oltre mille pagine della cartella clinica – due grossi faldoni che ancora oggi conservo nella libreria di casa – per i successivi mesi sarei rimasta inchiodata al letto.”

Dunque, una prima osservazione sul romanzo non può che riguardare la scrittura. Asciutta, precisa, distaccata: forse si deve scrivere così per raccontare la propria morte… “Del reparto di rianimazione ricordo la sete, il bip delle macchine e l’affanno dei respiratori. La sensazione che accanto a me qualcuno stesse per morire, sempre.”

Poi, il ritorno alla coscienza: “Ero consapevole di quanto avevo fatto? Sì. Ma non me ne rammaricavo. (…) Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta.” Ma non si è trattato di un gesto inatteso. La tragedia era annunciata: “qualcosa di terribile mi era accaduto, qualcosa di cui non avevo colpa e che avevo dovuto affrontare (…) cominciai a pensare che raccontare la mia storia fosse nello stesso tempo un dovere e un’opportunità.” Ma perché aveva voluto morire? La domanda obbliga a un nuovo punto di vista: si poteva parlare dell’atto come fosse stato compiuto da un altro, si può parlare delle sue ragioni solo calandosi nella propria storia. “Non un’unica causa ma una concatenazione di cause mi hanno fatto desiderare la morte. La mia testa, forse predisposta dalla nascita, ha incontrato situazioni sfavorevoli fino al punto di rottura, molto più avanti nel tempo”. È la “storia remota” a dover essere sondata, perché “è difficile liberarsi dal bambino che siamo stati. La nostra infanzia ci insegue e ci condiziona.”

Si coglie, in questa presa di posizione che ha mosso l’autrice e orienta il lettore fin dalle prime pagine, un modo di rapportarsi al problema vicino all’esperienza di altri scrittori che in tempi recenti hanno messo a tema la loro condizione. Emanuele Trevi per esempio (Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018), il quale non ha problemi ad ammettere che “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Per cui la depressione non appare semplicemente una questione con cui fare i conti, da risolvere in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, Einaudi 2018 –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue – in Trevi – alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”.

Se in Trevi l’origine del proprio stato trova una definizione filosofica, esistenziale, in Marino chiede di essere rintracciata nella vicenda personale, e dunque familiare, innanzitutto. A partire da quel nome, Fuani, nel quale i genitori vollero riunire i propri (Furio e Anita): “forse già chiamarmi così rappresentava un destino (…) Ma in questo mio racconto a posteriori, ogni dettaglio è destinato ad assumere le sembianze sinistre di un segno premonitore.” Quel che è certo è che – tipicamente – già nell’adolescenza la protagonista sperimenta “qualcosa di diverso dalla comune tristezza: assomigliava più alla perdita di senso.” E non a caso, all’università, si iscriverà a psicologia, senza per altro alcun interesse per la professione che avrebbe potuto conseguirne.

Non seguiamo la vicenda di Fuani, da lei raccontata con una precisione pacata che può a tratti ricordare certe pagine di Annie Ernaux, salvo interrogarsi – quando il racconto arriva a dire del primo “esaurimento nervoso” –  circa la necessità di “un codice linguistico diverso” quando si vuol scrivere della malattia. Ma ha senso porsi il problema quando la malattia è mentale? “Il mio tentativo – dichiara l’autrice – è questo libro”, la storia di una progressiva perdita dell’orizzonte che circoscrive la normalità, delle sofferenze di una “depressione post partum” che psichiatri freddi e protocollari, da un lato, e dall’altro familiari ben intenzionati ma incapaci di vedere quel che pure hanno sotto gli occhi, non sanno arginare. Poi, la cronaca degli interventi chirurgici, strettamente, volutamente aderente al linguaggio settoriale della medicina: protagonista sono il corpo e le operazioni che su di esso si svolgono; la storia e la soggettività sembrano messe al bando da quanto è accaduto. Ma sembra andar bene così: quello di cui Fuani può finalmente godere è il “sollievo nel non avere responsabilità, nell’essere presa in carico da qualcuno (…) Paradossalmente stavo meglio”. Senonché la pressione della domanda, più o meno esplicita, che gli altri inevitabilmente fanno gravare sulla convalescente – perché l’hai fatto? – va crescendo, si fa quesito interiore, ineludibile: “Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni – cerca di mettere a fuoco Fuani –: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta.” Ma “ci si abitua a tutto (…) e ci si rialza”, deve constatare nei mesi della riabilitazione, anche grazie al provvidenziale incontro con una dottoressa che la convince dell’essenziale: “Tu non sei quello che hai fatto.” Che è come dire: non c’è solo l’“etichetta psichiatrica” – “disturbo bipolare di tipo due” –, ma ci sono anche il proprio “temperamento” e la propria “visione delle cose”, e la necessità di accettare una “convivenza difficile”: quella con se stessi. Una necessità inaggirabile: “credere che questo libro migliorerà le cose significherebbe raccontarsi delle favole.” Ma la determinazione a fare lucidamente i conti con se stessi non impedisce di vedere che quello di essere felici, nei paesi occidentali almeno, da diritto si è fatto dovere e che “questa visione rende particolarmente difficile accettare condizioni come la malattia in generale e la depressione ancora di più.” E un romanzo, la letteratura più della saggistica, possono servire a anche a questo: a contrastare questa difficoltà, sempre più stridente in una società in cui la depressione sembra, a livelli e secondo declinazioni diverse, rappresentare un tratto costitutivo. Ne è consapevole l’autrice, fin dal momento in cui ha avuto l’idea del romanzo: “compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride (…): IO SONO COSĺ.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“L’equivoco per cui uno scrittore sia necessariamente anche un intellettuale è figlio dell’altro-ieri della storia letteraria…”

“L’equivoco per cui uno scrittore sia necessariamente anche un intellettuale è figlio dell’altro-ieri della storia letteraria (dell’engagement, dell’impegno di stampo secondo novecentesco etc.). Ciò non toglie che uno scrittore possa essere anche un intellettuale, ma i due campi, pur confinanti, non si sovrappongono. Quando un artista interpreta il mondo lo fa senza ridurlo a categorie ideologiche – quelle cui, giocoforza, ricorre un intellettuale impegnato – ma abolendo il concetto stesso di categorie e di ideologie. La sua prospettiva rispetto, a esempio, un conflitto bellico di scala internazionale, non è quella verticale della geopolitica, ma quella radente, orizzontale, del viandante, dell’uomo che cammina. (…) E l’opera ci mostra, per questo, della realtà, una verità ben più duratura di qualsiasi analisi obbiettiva”. (Stefano Gallerani)

Giancarlo Consonni, ‘Il desiderio di infinito’

Commento a Carlo Simoni, Quei monti azzurri
(Milano, 28 gennaio 2020)

Tra i documenti conservati a Recanati sono presenti dei quaderni di Paolina Leopardi che, per volontà degli eredi, non sono accessibili al pubblico. È forse da lì, dal desiderio di forzare quel segreto, che a Carlo Simoni è venuta l’idea di inventare un diario tenuto dalla sorella del grande poeta. Il risultato è un romanzo storico in forma diaristica: consistente in quanto in quel quaderno si immagina si sia venuto depositando nel periodo che va dal luglio 1817 al novembre 1819. Scandito mensilmente, il romanzo presenta quattro interruzioni corrispondenti all’ottobre 1817, al febbraio e al maggio 1818 e all’ottobre 1819, in cui si ipotizza che Paolina non metta mano al diario. Il libro si compone così di 24 capitoli, corrispondenti ad altrettanti mesi.

L’arco temporale non è scelto a caso: va dall’avvio dello Zibaldone per concludersi poco dopo la composizione de L’infinito. Si tratta di un passaggio cruciale anche per la vita di Paolina: corrisponde grosso modo al periodo che, per lei, va dai 17 ai 19 anni, quando, sul «limitare/ di gioventù», si manifesta «il primissimo fiore della vita».

Simoni attiva fin da subito un doppio sguardo: quello di Paolina e quello su Paolina. Nel fissare sulla pagina ogni evento, piccolo o rilevante, che interessa la vita dell’amatissimo fratello, l’autrice immaginaria del diario si trasforma nella figura alata di un osservatore/messaggero. Per suo tramite il lettore è immerso nello spazio domestico di casa Leopardi e nei suoi ancoraggi esterni (il borgo, la campagna, i luoghi delle passeggiate consentite ai soli figli maschi); ma soprattutto è “gettato” (per usare la nota espressione di Maurice Merleau-Ponty) nelle relazioni interne al nucleo familiare, regolate dall’ambizione, mista a frustrazione, del padre Monaldo e dalle chiusure bigotte e maniacali della madre Adelaide Antici. La ferma certezza di Adelaide che l’isolamento nell’universo domestico sia, tanto più per la figlia, la via salvifica dalle tentazioni mondane si salda alla convinzione di Monaldo che tutto ciò che può nutrire lo spirito possa essere ritrovato nella grande biblioteca da lui messa insieme con tenacia e passione. Orientamenti ossificati che si traducono in una chiusura possessiva nei confronti della prole (sette figli, di cui due morti in tenera età).

Il diario registra un succedersi serrato di eventi spesso minimi e apparentemente insignificanti, ma anche passaggi cruciali nella vita di Giacomo: lo stabilirsi di rapporti epistolari con Pietro Giordani, la morte di Teresa Fattorini (stroncata a vent’anni, nel settembre del 1918, dalla tubercolosi: a lei dieci anni dopo il poeta dedicherà il Canto A Silvia), l’esplodere della passione amorosa per Geltrude Cassi e, soprattutto, il suo incontro con la poesia, non solo da studioso ma da poeta.

Da subito si delineano alcuni fili conduttori che, intrecciandosi, imprimono alle memorie apocrife la vis narrativa di un romanzo. Il motivo preminente è la condizione d’isolamento in cui sono costretti Giacomo, Carlo e Paolina (i tre fratelli maggiori di casa Leopardi, nati a poco più di un anno di distanza l’uno dall’altro): una condizione che, ben presto, è da loro vissuta come una clausura. Il diario/romanzo dà conto, in un crescendo, della sofferenza che prende corpo e che culmina nel tentativo di fuga di Giacomo, miseramente fallito.

Con tocco leggero e sapiente, Simoni non manca di inserire qua e là elementi che preannunciano il dramma. Così, a evocare la prigionia, nelle prime pagine del diario sono richiamati i piccoli volatili un canarino, un fringuello, un passero solitario –, regalati, uno dopo l’altro, ai figli del padrone dal cocchiere di casa Leopardi, Giuseppe Fattorini, padre di Teresa, alias Silvia. Anche il confronto che Paolina istituisce fra la sua condizione e quella di Teresa evoca la comparazione tra l’essere in gabbia e il poter volare in libertà.

Alla tenaglia possessiva dei genitori si oppone, come può, la resistenza che, ciascuno a suo modo, oppongono i tre fratelli. Il trio è rinsaldato da un grande affetto e da un’intesa che si spinge fino alla complicità; ma, a complicare i rapporti, interviene ben presto la disuguale caratura intellettuale: l’emergere della personalità di Giacomo introduce disparità che, anche senza volerlo, portano a ridurre il fratello e la sorella a ruoli “di spalla”: di confidenti, di allievi, di copisti e, sempre, di ammiratori. Da cui l’insorgere inevitabile di inclusioni ed esclusioni.

La più colpita dalle esclusioni è, manco a dirlo, la sorella, verso la quale i fratelli, a cominciare dal maggiore, tendono a replicare l’atteggiamento protettivo dei genitori. Ma Simoni sa complicare il quadro facendo intravedere un rapporto carsico fra Paolina e Giacomo: un legame basato sul mutuo cercarsi e riconoscersi simili: nel profondo dell’animo e nella sofferenza che vi si va accumulando. L’autore porta in superficie il legame in un paio di episodi: il soccorso amorevole di Paolina al fratello intirizzito da un acquazzone e l’abbraccio tra i due con cui si conclude il romanzo. Ma Simoni fa in modo che tutto il diario apocrifo sia percorso incessantemente da sguardi, cenni, mezze parole, accensioni, silenzi, scoperte, incomprensioni, precipitazioni, incantamenti, piccole e grandi disperazioni: tumulti e tremori, fatti di tutto e di niente, dove apparenze e sommovimenti profondi si saldano in una tensione restituita con grande finezza.

Carlo Simoni ha fatto rivivere nei suoi romanzi personalità come Gustav Klimt, Thomas Mann e Walter Benjamin, misurandosi con sfide da far tremare i polsi. Ma qui, nel dare vita a Paolina Leopardi, è alla sua prova più ardua. E il risultato è ancor più convincente. La sua Pilla è del tutto credibile: il ritratto a tutto tondo di un’adolescente alle soglie della giovinezza a cui è riservato un doppio destino crudele: quello di reclusa (costantemente in bilico tra il finire in un convento e l’andare in sposa a un marito che spetta ad altri scegliere) e quello di una persona a cui la sorte ha negato la bellezza fisica. Un dramma, quest’ultimo, esaltato, per contrasto, dall’essere la bellezza un riferimento cardinale per i tre fratelli, forse la più intima trama che li lega; quando invece, scrive la Paolina di Simoni, «i più» «solo vedono […] e considerano, e son capaci d’amare» «l’esteriore sembiante», «ché l’anima per bella che possa essere, non si dà a vedere…» (p. 55).

Nel 1821 (ovvero due anni dopo la chiusura del diario immaginario), nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina – il matrimonio con Pier Andrea Peroli di Sant’Angelo in Vado, com’è noto, non andato in porto –, il poeta oserà parlare di «beltade onnipossente». Se nella formula c’è un nucleo di verità – da Giacomo direttamente sperimentato nell’invaghimento per Geltrude –, è altrettanto vero che non meno «onnipossente» può essere l’assenza di bellezza fisica, per gli effetti devastanti che può avere soprattutto per chi è «nel fior degli anni». Nella confessione/riflessione che Paolina fa sulla propria condizione – dalla ‘scoperta’ del proprio corpo fino all’autoritratto impietoso, ulteriormente ribadito dalla consapevolezza che quel corpo non ha «conosciuto le mutazioni leggiadre che fan d’una fanciulla una donna» (p. 81) – il diario apocrifo raggiunge alcuni dei suoi momenti vertiginosi.

Con l’invenzione del diario, Simoni mette in campo un efficacissimo espediente narrativo: il lettore può avvicinare gli accadimenti che interessano Giacomo per quanto è consentito a Paolina. E questo, mentre rende ancor più credibile la fictio, consente all’autore di condividere con il lettore una consapevolezza implicita: il centro attorno a cui gravita la narrazione – lo svolgersi, in quei 28 mesi, della vita di Giacomo Leopardi e di ciò che matura nel suo intimo – è intuito, fatto oggetto di assidue congetture e, qua e là, persino intravisto, come si trattasse di apparizioni: di materia incandescente che però resta per lo più inaccessibile. Viene così in chiaro, tra le valenze del romanzo, anche quella filosofica. Un modo ulteriore di porsi in simbiosi con il protagonista.

Se avesse fatto ricorso alla descrizione diretta dei personaggi e degli eventi, difficilmente l’autore avrebbe conseguito un risultato altrettanto efficace. Grazie invece alla modalità adottata – una forma mediata di scrittura, che si spinge fino a un raffinato esercizio di stile che allude all’italiano cólto d’inizio Ottocento – ha potuto implicare il mistero e gestire con sapienza narrativa i disvelamenti.

A sospingere il farsi del romanzo sono, in tutta evidenza, la curiosità, il desiderio e la dedizione, nutriti da un’ammirazione sconfinati. Che sono di Paolina Leopardi – e, in filigrana, di Carlo Simoni – ma che finiscono per confondersi con quelli dei lettori che amano l’opera di Leopardi. Mentre l’acribia dello storico è da lì che Simoni proviene – assicura solidi ancoraggi alla narrazione, ogni inezia che si deposita sulla pagina alimenta lo sviluppo di una sinfonia fatta insieme di minime vibrazioni e di un movimento largo e avvolgente, dove il tema principale lascia, qui e là, spazio a temi secondari non meno avvincenti. Finendo per identificarsi, almeno in parte, con Paolina, il lettore viene così immerso nella materia incandescente della vita.

Allo stesso tempo, poiché Giacomo, almeno secondo Simoni, non consente alla sorella (implicata per lo più come copista) di leggere tutto ciò che la sua penna fissa sulla carta, e ancor meno di condividere fino in fondo tormenti e passioni, si viene a creare una situazione che rasenta il paradosso per cui il lettore può “vedere” connessioni tra gli accadimenti e gli scritti (in varia forma) di Giacomo Leopardi che a Paolina non sono accessibili ma che pure sono innescate/suggerite dalle “sue” stesse parole. Grazie a questo, e ad altri accorgimenti, in chi legge all’immedesimazione si affianca la distanza. In tal modo l’io narrante assume ancor più lo spessore di personaggio: l’“autrice del diario” è la deuteragonista, non inferiore, quanto a valenza umana e a sottigliezza di sguardo, del protagonista, il grande, immenso Giacomo Leopardi.

Si forma così un trio – Paolina, Carlo Simoni e il singolo lettore – che dà al testo una forte connotazione teatrale.

Il passaggio sulle scene del diario/monologo comporterebbe un ovvio intervento di adattamento, ma è, mi sembra, già chiaramente delineato. Il culmine del romanzo è la scoperta furtiva di Pilla del manoscritto de L’infinito. A ben vedere il diario apocrifo non è che una lunga premessa a questo evento. Se il commento “in diretta” di Paolina Leopardi tocca punti altissimi, l’intero libro sembra pensato per favorire l’avvicinamento del significato di questa lirica, dove l’ansia di libertà, e la sofferenza che l’accompagna, si sublimano nell’incanto e nel desiderio di un abbraccio cosmico.

“Bisogna guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi…”

“Bisogna guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi [altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante] e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) (…) bisogna guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici (…) Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guardare, colpa”. (Goffredo Fofi)

La famiglia dell’architetto e altri animali

Lia Piano, Planimetria di una famiglia felice, Bompiani 2019 (euro 15, pp. 158)

Oltre al cognome, quel planimetria nel titolo mette sull’avviso: non si tratta di un’omonimia. L’Autrice è figlia di Renzo Piano, e fra i meriti del romanzo c’è anche quello di darci un suggestivo ritratto dell’architetto da giovane. Quanto al titolo, è ovviamente Tolstoj a venire in mente, e il famoso incipit di Anna Karenina: contraddetto, si direbbe, in questo caso. Anche le famiglie felici sono felici a loro modo, questa di sicuro. Anche se ad un’altra famiglia è inevitabile pensare: quella di Gerald Durrell. Anche nella famiglia Piano si muove infatti una donna tuttofare di estrazione popolana e saggezza nativa; l’ultimogenito è il narratore e deve fare i conti con i fratelli maggiori (“Essere la più piccola di una famiglia numerosa significa arrivare quando l’esperienza ha già operato la sua lenta erosione sulle certezze. Quando due più due non fa più quattro”); gli animali occupano un posto di tutto rispetto, che siano cani (quatto) o galline (cinquanta), come quelle per cui il geniale architetto, per altro quotidianamente assorbito dalla costruzione di una barca, concepisce l’idea di un pollaio la cui progettazione sarà partecipata, aperta al contributo di ciascuno dei familiari, nessuno escluso. Nel frattempo, la planimetria di questa casa – sulle cui porte, coerentemente con la comune ispirazione libertaria, campeggia la scritta “Vietato vietare” – evolve in conseguenza del delinearsi delle attitudini e degli hobby fra loro diversi che gli abitanti via via coltivano. Tanto intensamente da non aver tempo da perdere con quel che accade fuori dalla casa: “Maria – la bambinaia cuoca cameriera – fu incaricata di tenere i rapporti tra noi e il mondo, e farci un riassunto di cosa capitava là fuori”. Un romanzo divertente, scritto con spirito, con un finale esplosivo… di cui non è il caso di dire qui.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“La scrittura, per come la vedo io, non è un esercizio di ego…”

“La scrittura, per come la vedo io, non è un esercizio di ego. È più simile alla costruzione di un mandala. Annullare se stessi e il mondo costruendone uno più nitido ma fittizio, il cui scopo è essere spazzato via da un colpo di mano. Lo stesso vale per la lettura. Il lettore troppo legato al suo io non riuscirà mai a godere appieno di un libro”. (Luca D’Andrea)

Una battaglia persa che vale la pena di continuare

Goffredo Fofi, L’ oppio del popolo, Elèuthera 2019 (pp. 166, euro 16)

“Per uno come me – conclude l’autopresentazione che è anche un rapida autobiografia intellettuale ad apertura del libro – e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato facile per il potere servirsi della cultura (…) cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici della manipolazione, del dominio”. È la sintesi del discorso, con un’appendice decisiva, su quel che occorre fare ma non tutti possono: “È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti”.

Se il pensiero, a quel richiamo a minoranze convinte e rigorose, va a un altro recente pamphlet, quello di Gustavo Zagrebelsky (Mai più senza maestri, Il Mulino 2019), la critica spietata che passa in rassegna i diversi settori e aspetti della cultura sembra evocare i toni perentori, non di rado sarcastici, del romanzo di Francesco Pecoraro (Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019).

Il bilancio pesantemente dello stato delle cose è infatti anche qui decisamente negativo: “Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi”. 

Il discorso che da questi presupposti si sviluppa dimostra come l’identificazione di un nuovo oppio del popolo nella cultura – intesa in tutte le forme assunte, a partire dagli anni Ottanta soprattutto: dall’informazione, oggi detta comunicazione, all’arte e alla letteratura, dal teatro al cinema, dall’editoria alle altre branche dell’industria culturale (festival compresi), dalla scuola al volontariato nelle variegate forme del terzo settore – non sia il frutto di quell’ “esasperazione personale” che pure l’autore ammette, ma di un’analisi dettagliata che non solo la vastità dei riferimenti ma anche lo stile adottato – fatto di giudizi inappellabili e riprese frequenti ma sempre pertinenti e di un tono che unisce l’invettiva alla considerazione scettica – non consentono di rendere in una nota di lettura.

Ognuno può trovare in queste pagine argomenti che lo toccano da vicino. Chi si prova a scrivere, ad esempio, si troverà a riflettere sulla necessità di “guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi – altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante – e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) e dunque sull’opportunità di “guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici”. Perché “Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guadare, colpa”. Ma più in generale, a trovare in questo libro motivi di inquietudine e ragioni di autoesame sono – siamo – tutti coloro che in tesi come quelle espresse da Fofi in varia misura si riconoscono senza per questo avvertire, tuttavia, la necessità indilazionabile di cercare un sbocco pratico, politico, collettivo alle loro convinzioni. A tutti costoro l’autore rivolge un invito preciso, anche se non certo declinabile in soluzioni specifiche: “diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, (…) teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti”, nella sostanza. Non distinguibili da coloro che “Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia” e “Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il piacere di narrare di un grande scrittore

Marina Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, Marsilio 2019 (pp. 199, euro 13)

Per i numerosi cultori dell’opera di Italo Calvino la pubblicazione di un libro sul loro autore prediletto è sempre un’occasione per tornare a scoprire punti di vista nuovi, da condividere o con i quali misurarsi comunque. In molti casi, il Calvino che in questi studi si ritrova risulta una figura stilizzata, se non ridotta allo scrittore più interessato ai meccanismi dello scrivere che al piacere del narrare, ed è appunto a riequilibrare questa tendenza critica che arriva questa rilettura del Barone rampante e di Se una notte d’inverno un viaggiatore, i due romanzi più lunghi di Calvino, tanto lontani per impostazione narrativa – tradizionale il primo, sperimentale il secondo – quanto accostabili per l’“impronta volutamente coinvolgente” e soprattutto per la scelta di raccontare “vite di personaggi in qualche modo sovrapponibili a quella dell’autore”: in due sensi. Innanzitutto perché vi si possono rintracciare riferimenti autobiografici, anche se non espliciti, ma connotati da un’indubbia importanza esistenziale per l’autore; in secondo luogo, perché vi traspare una “passionalità” che si rivela nelle “più riuscite rappresentazioni dell’amore e dell’eros che Calvino abbia mai affidato ai suoi libri”. Se è soprattutto nel Viaggiatore che si possono leggere i diversi aspetti dell’esperienza di scrittore, di “uomo di casa editrice” e, certamente, anche di “teorico della letteratura”  – perennemente attratto da Le mille e una notte, luogo della “basilare e partecipata sovrapposizione tra l’esistenza e la fruizione di storie” –, è nel Barone che non solo è facile scorgere in Cosimo una “proiezione” dell’autore, ma è anche possibile ripercorrere allusioni alla propria vicenda personale e “velate riscritture del (suo) romanzo familiare”. È questa la traccia di ricerca che si segnala per un’originalità e un’acutezza di sguardo che raramente si riscontra in altri saggi sull’opera di Calvino. Senza nulla togliere alle “Tre letture per il Viaggiatore”, che costituiscono la seconda parte del libro, né ai tre studi raccolti nell’Appendice, infatti, è nella prima parte – dedicata al Barone rampante –  che ritroviamo una rilettura per alcuni versi sorprendente.   A partire da “un passo poi non confluito nell’edizione del libro, nel quale Biagio, il narratore, richiama un tratto della personalità del fratello: “una componente di rimorso per aver sottratto la sua vita all’immediata comunanza con gli uomini”, altra faccia del suo ininterrotto tentativo di “conquistare un equilibrio tra l’arbitrio ingiustificabile della sua volontà di star sugli alberi e una giustificazione sociale”.  Al di là dell’eco della vicenda di Calvino, con il coinvolgimento diretto nell’attività di partito comunista – e più in generale in quella “lunga dialettica fra ‘militanza’ e ‘fantastico’”  richiamata da un altro autorevole lettore: il Carlo Ossola di Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove (Vita e pensiero 2016), –  è proprio in posizioni come questa, nella loro mai risolta complessità – o contraddittorietà, se si preferisce – che risiede uno dei motivi per cui lo scrittore resta attuale, testimone di un modo d’essere che non ha certo perduto le sue ragioni politiche e culturali e, più in generale, esistenziali. Ragioni riassumibili nella convinzione che “per essere con gli altri, la sola via (è) d’essere separato dagli altri”.

La sensibilità dell’autrice si evidenzia tuttavia soprattutto laddove ci accompagna a riconsiderare il rapporto di Cosimo con il padre da un lato e la madre dall’altro e, parallelamente, quello di Calvino con i propri genitori, e dunque la passione agronomica e botanica che li aveva contraddistinti, le loro scelte di vita: “eredità genitoriali che lo scrittore sembra abbracciare e da cui sembra allo stesso tempo prendere le distanze”, e che nel romanzo articola nella figura di un figlio che metaforicamente fa propria la passione per la natura del padre reale – nel mentre lascia su uno sfondo “inconcludente e macchiettistico”  il genitore romanzesco – e rivela invece una vicinanza profonda e sostanziale con quella madre che, da Generalessa austera e distaccata, diventa fulcro di “una storia d’amore riscoperto”, lasciando emergere un’insospettata convergenza fra la determinazione del figlio a rispettare fino all’ultimo il suo stile di vita e il costume della madre reale, per la quale “il giardino, il volontario confino, la passione che si trasforma in dovere” erano state le costanti di una vita.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una vita lacerata in un paese spezzato in due

Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi 2019 (pp. 239, euro 17,50)

“Siamo i bimbi del Mezzogiorno. La solidarietà e l’amore degli emiliani dimostra che non esistono Nord e Sud, esiste l’Italia”: è la scritta che compare in una foto ricordo di un fatto poco noto. Nel 1946, il Partito Comunista organizza il trasferimento e il soggiorno di un anno di bambini del Sud presso famiglie emiliane per toglierli dalla miseria che appena dopo la guerra si è fatta laggiù ancora più drammatica.

Questo il fatto. Ma è innanzitutto il linguaggio adottato a farne materia di romanzo. Il linguaggio e chi lo parla: è di uno di quei bambini, Amerigo, il punto di vista da cui la storia viene narrata, a partire dal tragitto che lui e la madre fanno per andare a sentire dell’inaspettata opportunità: “Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo, due miei. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai…”.

La madre Antonietta, che vive di espedienti e di scambi di favori con un malavitoso, chiusa nel suo realismo disperato; Maddalena, l’attivista che organizza il viaggio superando la diffidenza della donna; e poi altre donne, lassù in Emilia: Derna, l’affidataria, un’altra attivista, e la cugina Rosa, nella cui casa Amerigo passerà la maggior parte del tempo fra i figli di lei (Rivo, Luzio e Nario): il romanzo mette in scena figure, di donne soprattutto, delineate con pochi tratti, ma che nel corso della vicenda acquisiranno sostanza e fisionomie inconfondibili, destinate a fissarsi nella memoria del lettore.

È là, lontano da casa, che Amerigo, oltre che poter calzare scarpe decenti, conoscerà la musica, e la vocazione che ne farà un musicista, un giorno, ma intanto, passato il periodo stabilito, deve tornare: superata la paura con cui era partito (indotta da voci come quella che li avrebbero portati in Russia, lui e gli altri) e lo spaesamento dei primi tempi, è poi il dover tornare a confrontarsi con lo squallore senza speranza del basso dove la madre ha continuato a vivere e della bottega di calzolaio – ancora le scarpe… – in cui il bambino sarà messo a lavorare a imporsi, a suscitare l’impressione di essere spezzati in due metà. Non più là, ma neanche qui, come un tempo. E allora la fuga, il ritorno al Nord, e una vita che andrà per la sua strada e solo molti anni dopo riporterà il protagonista a Napoli, dove la madre è appena morta, ma la città non lo accoglie, né come un “turista” né come “uno che appartiene alla città”: “Forse – conclude Amerigo – sarò sempre solo questo: uno che è andato via”.

Avevamo già conosciuto sentimenti simili di irrecuperabile lacerazione, nell’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, ma è il pathos de La storia di Elsa Morante a risuonare via via in queste pagine.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.